25 luglio 2007

Succo di fretta

E' tornato l'affanno. Quella sensazione di perpetuo inseguirmi. Quel mio scodinzolarmi davanti al muso. Il pensiero che edifica cento edifici, progetti di cose da fare, persone da incontrare per la prima volta, esperienze da registrare, ancora incontri per l'ennesima prima volta. Tutto messo su carta, un piano dettagliato. Ma il corpo non segue. Il ritorno a casa, la testa lenta e le braccia pesanti, occhi che ad ogni battere fanno sempre più fatica a tornare aperti, lo so dovrei, ma no no non ce la faccio, domani promesso sì domani, recupererò. Il corpo rincorre la mente. Mi rincorro. Poi eventi inaspettati, sgradevoli contrattempi, meravigliose coincidenze. La vita che capita, ma che non era in programma. Che occupa il corpo in maniere non previste. E il pensiero che deve ricondurre tutto ai piani originali. Far collimare, che ci vuole, sarà facile; un nuovo paradigma e tutto sarà assimilato. La mente rincorre il corpo. Mi rincorro. Qualcosa deve cambiare.

Avessi una coda da sventolare e far leggere agli altri! Invece mi è stato dato un sorriso che non so usare.

A volte interrompo la lettura di un libro e resto imbambolato a guardare la pagina aperta. Allora le lettere scompaiono e dagli spazi bianchi tra le righe e dai contorni delle parole emergono figure prima invisibili. Spesso sono semplici suggestioni geometriche, come cerchi o triangoli. Più raramente dei volti stilizzati o figure di animali. In una occasione ho anche creduto di vedere un rudimentale paesaggio.

Acqua che scivola da una grondaia rossa e batte sorda sull'asfalto. La scambio per il ritmo di una musica remota.

E' un vecchio foglio. La carta è ingiallita, la quadrettatura sbiadita. E un foglio per raccoglitori ad anelli, sul lato ci sono due fori di mezzo centimetro. Sul bordo di uno dei buchi è rimasto attaccato un cerchiolino di carta, evirato da un qualche tipo di meccanismo rilegatore, ma dimenticato lì. Il perimetro è circondato dalla sottile peluria della carta strappata. A metà, lungo la linea di piega del foglio, c'è un minuscolo rigonfiamento, simbolo delle centinaia di volte in cui è stato piegato e dispiegato. In un angolo la superficie della carta si fa grinzosa, forse una mano emozionata ha stretto quel lembo con troppo ardore. Dove le gocce hanno baciato il foglio, l'inchiostro si è spanso in macchie diafane dai bordi frastagliati, come meduse azzurre sospese in un'enormità lattiginosa. Negli stessi tratti la scrittura si fa indecifrabile, le grazie della bella grafia corsiva iniziano a gonfiarsi e, prossimo agli abissi più profondi, ogni simbolo si confonde e fa misterioso. Ritenne giusto imparare a memoria non solo quelle parole e il loro suono, ma anche il corpo su cui erano state tatuate: per incatenare il ricordo alla gabbia in cui furono imprigionate, insieme al suo futuro.

Incastrati.
Le nostre teste accanto.
Orecchio contro orecchio, reciproci.
Denti di un ingranaggio da immaginare.
Inseriti ognuno nella fessura dell'altro,
una spalla sopra una testa,
una testa sopra una spalla.
Uno di noi due,
e non ti dirò chi,
è capovolto.
Leggeri particolari, è chiaro:
un lieve imporporarsi del viso,
bizzarro ricadere della stoffa dei vestiti,
lo sguardo stretto e la tensione
dei muscoli della mascella e del collo.
Stupida posa, per una fotografia.

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