19 ottobre 2010

Pezzi della luna che ho tenuto da parte

All'inizio di questa storia piove appena; perchè ogni storia, per iniziare, ha bisogno di eventi che ne introducano il tono e non ne impediscano lo svolgimento. Per questo, all'inizio di questa storia, non brilla il sole e non piove a dirotto. Potrebbe al massimo nevicare, ma la neve ha la colpa di essere silenziosa, e questa storia non ha niente di silenzioso. Il protagonista della storia potrei anche essere io, o magari una donna che cammina per la strada. Anche un cane andrebbe bene. Non fa nessuna differenza, perchè alla fine della storia il protagonista non sarà andato da nessuna parte, non avrà raggiunto la sua Itaca, non avrà salvato la sua Camelot, non avrà affrontato la sua nemesi, non sarà stato trafitto eroicamente e non sarà stato vittima dell'immedesimazione di chi questa storia cerca ancora di prenderla come tutte le altre storie. Ed è l'unico motivo per cui colui che è veramente il protagonista di questa storia riesce a sopportarlo. Faremo una concessione alla storia, utilizzerò un nome, forse qualcuno in più. Non perchè una storia abbia bisogno di nomi, niente affatto, ma questa storia, senza nomi, con il suo modo di divenire storia, finirebbe per essere più storia della storia che ambisce ad essere. Ed in questa storia un eccesso di storia sarebbe una colpa.
Il nome è Shai.
Shai ha eretto una fortezza di micro-abitudini. La pioggia fa il marciapiede lucido. In scene come queste, chi ha la luce detta la legge. Una luce intermittente è un ordine. La frequenza è misura di perentorietà. Shai è un corpo cavo. Incassa la testa nelle spalle. Le braccia stringile contro il corpo, parallele, piegate appena. Rendi lo sguardo più grigio che puoi. Regola il volume tanto da coprire il mondo fuori, non tanto da essere notato dal mondo fuori. Non scivolare, per ciò che hai di più caro, non scivolare, ti prego. Forse oggi riuscirai a scomparire.
Un uomo distante alza la voce nella direzione di Shai. "Signore, le ho forse fatto torto in qualche modo?". La frase attraversa la strada. Shai, nella rivelazione di sè che sa di sconfitta, si concede uno sguardo verso l'alto. Alcune luci illuminano la strada prive di alcun appiglio logico. Gruppi di falene si arrovellano delle stesse incertezze di Shai, volandoci contro ripetutamente, che è il modo degli insetti di fare domande. Le traiettorie delle falene sono cerchi bianchi contro il cielo. Le traiettorie delle gocce di pioggia sono rette ortogonali a queste circonferenze. Shai riconosce l'immagine. Linee di campo elettromagnetico generate da un filo infinito percorso da corrente continua.
I rifiuti di carta si gonfiano d'acqua e si sciolgono. Shai, notandoli, cerca di immaginarsi la natura dell'essere immorale perfetto. "Sono io così? Potrei esserlo se lo volessi?". Si lusinga. Il riproduttore anameccanico intercetta il pensiero. Shai ne ascolta l'elaborazione attraverso gli auricolari. "Eri un bambino e avevi un gioco composto da scatole di plastica che siedevano l'una dentro l'altra. Ricordi? La più grande era rossa, ed ogni scatola aveva un colore diverso da quella adiacente. Potevano essere impilate per formare una piramide. Una teoria morale, una qualsiasi, è quella piramide. Le stesse scatole, riposte una nell'altra, sono la forma dell'immoralità". Il riproduttore anameccanico è un aggeggio divertente. Tecnicamente è un ibrido tra una macchina connettiva, un EEG portatile, una generatore markoviano e una membrana positronica. In pratica è un compagno di filosofie portatile. Cattura i pensieri e modella le antitesi successive. Usarlo produce la sensazione di avere a che fare con una versione di sè cinquenne che non solo ha tutte le domande, ma anche tutte le risposte. Shai ne ha paura, e bisogno.
Per raggiungere il proprio appartamento è costretto ad attraversare il piazzale antistante una caserma militare. Da questo momento in poi, ogni sera, Shai perde la capacità di ignorare. Le mura degli edifici improvvisamente sono, e sono aride e decrepite. I rami tornano contro i vetri delle finestre. Le pietre, le mancanze, le ombre, le infusioni, le smorfie, i tracciati, le storture, i gradienti, le zampe, le confezioni, le ginocchia, le goccioline, le sospensioni, le cavità, le macchie. Shai si sente riempire. Non di nausea, perchè quella appartiene ad un'altra storia. E' una colonizzazione parassita. Una necrosi e le dita che la penetrano per grattarla via. Un ectoplasma da rigurgitare durante una seduta spiritica. Il desiderio di di ustionarsi le mani lavandole con acqua bollente. "Credevi che saresti riuscito a resistere fino all'arrivo a casa, vero?"
Adesso, se Shai si mette a pensare, sente freddo. Non nelle membra, ma nei pensieri. Un dirigibile metallico attraversa il cielo, impassibile. Dei fari lo illuminano da terra, lo rincorrono. "Perchè ho voglia di fine? Perché mi sono insopportabili le necessità scambiate per verità? Perchè ho smesso di ridere e piangere alle finzioni antropomorfe? Perchè non provo più bisogno di particolare e di generale?". Il dirigibile è scomparso, e l'atmosfera torna viscosa ed elettrica. La pressione barometrica aumenta impercettibilmente. Cambia la geografia del cielo nuvoloso. Il riproduttore anameccanico ha scandito le gerarchie logiche, esaurendole. Ha individuato una contraddizione. "Le antiche filosofie sofiste teorizzavano l'inconoscibilità dell'essere, attraverso deduzioni logiche che avevano come presupposto l'incomunicabilità, discendente a sua volta dalla natura incompleta del linguaggio umano. La derivazione moderna è la teoria per cui sia impossibile giudicare un capo di abbigliamento se illuminato dalla luce al neon. Arriverà il nulla, e non avrà bisogno di servitori."
E non avrà bisogno di me.
Sono libero. E torno a casa.