20 settembre 2009

Massima cattiveria nel silenzio

Beh, era una giornata piena di sole. Non che ci fosse niente di male, ma l'unica caratteristica di quella giornata era l'abbondanza di sole. Essere pieni sole è una qualità come ce ne sono tante altre. Guidavo allegramente, che se la mia macchina avesse potuto saltellare, avrebbe saltellato. Dovete immaginarvi la mia macchina con il parabrezza quasi verticale. Ecco, mentre io me ne stavo a guidare, una cimice molto verde si arrampica sul parabrezza. La cimice era MOLTO verde. Le cimici sono molto verdi solo nelle giornate piene di sole. Camminava sulla mia macchina con quel modo di camminare che hanno le cimici e faceva finta di niente, come se la mia macchina fosse un pianeta. Quando qualcuno cammina su di un pianeta che si muove, lo fa sempre facendo finta di niente, o almeno facendo finta che il pianeta non si muova. Per un attimo ho pensato di chiedervi di considerare il punto di vista della cimice, ma adesso ci ho ripensato. Tutto qui.

Ammettiamo che tu sia una persona che si butta giù facilmente. Arriva un qualcuno qualsiasi e ti dice "Non buttarti giù!". Allora ti chiederai: "Dunque sono una persona che si butta giù facilmente?". Questo pensiero, poichè sei una persona che si butta giù con facilità, ti butterà giù. E succederà che il pensiero di essere buttato giù dal fatto di sapere di essere facile a buttarsi giù, ti butterà giù. A causa di tutto questo essere buttato giù, ti dirai: "Sì, è vero, mi butto giù facilmente." e ti butterai giù di conseguenza. Fin quando non ci sarà qualcuno che, vedendoti così buttato giù, ti dirà: "Non buttarti giù!".

Immaginate di avere davanti a voi un cofano emozionale, uno di quelli che si manovrano solo dall'esterno. Lo aprite e ci trovate dentro qualcuno. La verità è che quel qualcuno non è la vittima. Soprattutto quando ha ancora le chiavi in tasca.
Ora le mie mani non sono dove dovrebbero essere. La riduzione a horror.
Vorrei iniettarmi mine di matite nelle vene, per vedere disegnato in trasparenza il grafico del mio sangue che circola sterile, in un gran premio senza fine e senza premio.
Io esisto nel tempo come un'auto che passa dentro una fotografia.

Sono seduto in un caffè. Davanti a me c'è seduta una donna, in mezzo un tavolo di plastica bianco sporco a dividerci. Alla mia sinistra una vetrata che affaccia su un giorno che comincia o inizia o prosegue sulla falsariga di. La donna è sottile, si stringe nelle spalle, tiene i gomiti sul tavolo non troppo distanti tra loro. Tiene la testa appoggiata sul dorso della mano destra. Indossa una maglia nera di lana, aderente, che le copre gli avambracci fino a metà. Tutto nel suo viso è estremamente orizzontale. Non stiamo dicendo niente, non abbiamo parlato di niente. Lei osserva la parte del mio schienale che raggiunge il muro, dove parte dell'imbottitura è fuoriuscita dalla tappezzeria. Io fisso il bordo interno della tazza vuota che ha davanti. E' macchiato di caffè. Immagino di segarle il braccio a metà, lungo la manica, e osservarne la sezione longitudinale, i muscoli, l'ulna, il radio, il midollo osseo, le vene e le arterie. Immagino che per un momento non vi sia più interazione possibile tra alcun atomo della materia; ogni cosa sarebbe polverizzata, nebulizzata, tutto rientrerebbe anonimo nei processi pseudocaotici della galassia, io, lei, la tazza di caffè, il bar, la strada, il giorno fuori. Immagino di prendere la tazza vuota e tirarla contro il muro, sento già il rumore dei cocci che rimbalzano per terra, sento già il rumore degli sguardi degli altri avventori sul nostro tavolo. Immagino uno scenario meno compromettente. Immagino che d'improvviso la forza di gravità si inverta, ma limitatamente alla tazza di caffè. Cadrebbe verso l'alto, e si andrebbe a schiantare sul soffitto. La gente intorno osserverebbe il fenomeno con stupore e cercherebbe il mio sguardo per darmi di gomito, un nauseante lo-hai-visto-anche-tu, siamo-parte-di-qualcosa-insieme. Ma a quel punto noi saremmo già andati via, e io sarei già lontano.