25 luglio 2010

Di porte che sanno mangiare da sole

Una mano stringe la bacchetta e rimane sollevata sopra la testa, per frazioni di battuta. Come un oggetto lanciato in aria, che arriva al punto più alto della sua parabola e rimane fermo lì, esaurita la spinta iniziale, aspettando che altre forze facciano il loro corso. Manca poco prima che si abbatta sul timpano, con scarsa convinzione, con l'indolenza richiesta dalla canzone. Messe sullo spartito, quelle parole in italiano scritte in bella calligrafia, piene di grazie. Senza fretta. I faretti motorizzati si mettono a roteare di luce viola, a riconquistare l'attenzione di chi, in piedi di fronte ad un palco, si perde in fantasie inevitabilmente tangenziali. Un ecosistema, là sotto, popolato con fauna di disinteresse e flora di comatoso sbigottimento. Decine di corpi impegnati a traspirare, in gruppetti. Una stessa cosa con nomi differenti è fonte di confusione. Fossero molecole di acqua la si chiamerebbe tensione superficiale. Ma questi si chiamano essere umano l'un l'altro e allora questa cos'è? Paura? Abitudine? Gravità emozionale? In qualsiasi momento potrebbe entrare in sala una spedizione di speleologi, tenendo in mano torce di legno fiammeggianti, a rischiarare il cammino. Lo speleologo entra sempre con la testa bassa e inarcando la schiena. Lo speleologo, con la sua torcia, darebbe fuoco a tutto il vapore di alcol che campeggia su queste teste. La speleologia, come suonare la batteria, è distruzione.

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