19 ottobre 2010

Pezzi della luna che ho tenuto da parte

All'inizio di questa storia piove appena; perchè ogni storia, per iniziare, ha bisogno di eventi che ne introducano il tono e non ne impediscano lo svolgimento. Per questo, all'inizio di questa storia, non brilla il sole e non piove a dirotto. Potrebbe al massimo nevicare, ma la neve ha la colpa di essere silenziosa, e questa storia non ha niente di silenzioso. Il protagonista della storia potrei anche essere io, o magari una donna che cammina per la strada. Anche un cane andrebbe bene. Non fa nessuna differenza, perchè alla fine della storia il protagonista non sarà andato da nessuna parte, non avrà raggiunto la sua Itaca, non avrà salvato la sua Camelot, non avrà affrontato la sua nemesi, non sarà stato trafitto eroicamente e non sarà stato vittima dell'immedesimazione di chi questa storia cerca ancora di prenderla come tutte le altre storie. Ed è l'unico motivo per cui colui che è veramente il protagonista di questa storia riesce a sopportarlo. Faremo una concessione alla storia, utilizzerò un nome, forse qualcuno in più. Non perchè una storia abbia bisogno di nomi, niente affatto, ma questa storia, senza nomi, con il suo modo di divenire storia, finirebbe per essere più storia della storia che ambisce ad essere. Ed in questa storia un eccesso di storia sarebbe una colpa.
Il nome è Shai.
Shai ha eretto una fortezza di micro-abitudini. La pioggia fa il marciapiede lucido. In scene come queste, chi ha la luce detta la legge. Una luce intermittente è un ordine. La frequenza è misura di perentorietà. Shai è un corpo cavo. Incassa la testa nelle spalle. Le braccia stringile contro il corpo, parallele, piegate appena. Rendi lo sguardo più grigio che puoi. Regola il volume tanto da coprire il mondo fuori, non tanto da essere notato dal mondo fuori. Non scivolare, per ciò che hai di più caro, non scivolare, ti prego. Forse oggi riuscirai a scomparire.
Un uomo distante alza la voce nella direzione di Shai. "Signore, le ho forse fatto torto in qualche modo?". La frase attraversa la strada. Shai, nella rivelazione di sè che sa di sconfitta, si concede uno sguardo verso l'alto. Alcune luci illuminano la strada prive di alcun appiglio logico. Gruppi di falene si arrovellano delle stesse incertezze di Shai, volandoci contro ripetutamente, che è il modo degli insetti di fare domande. Le traiettorie delle falene sono cerchi bianchi contro il cielo. Le traiettorie delle gocce di pioggia sono rette ortogonali a queste circonferenze. Shai riconosce l'immagine. Linee di campo elettromagnetico generate da un filo infinito percorso da corrente continua.
I rifiuti di carta si gonfiano d'acqua e si sciolgono. Shai, notandoli, cerca di immaginarsi la natura dell'essere immorale perfetto. "Sono io così? Potrei esserlo se lo volessi?". Si lusinga. Il riproduttore anameccanico intercetta il pensiero. Shai ne ascolta l'elaborazione attraverso gli auricolari. "Eri un bambino e avevi un gioco composto da scatole di plastica che siedevano l'una dentro l'altra. Ricordi? La più grande era rossa, ed ogni scatola aveva un colore diverso da quella adiacente. Potevano essere impilate per formare una piramide. Una teoria morale, una qualsiasi, è quella piramide. Le stesse scatole, riposte una nell'altra, sono la forma dell'immoralità". Il riproduttore anameccanico è un aggeggio divertente. Tecnicamente è un ibrido tra una macchina connettiva, un EEG portatile, una generatore markoviano e una membrana positronica. In pratica è un compagno di filosofie portatile. Cattura i pensieri e modella le antitesi successive. Usarlo produce la sensazione di avere a che fare con una versione di sè cinquenne che non solo ha tutte le domande, ma anche tutte le risposte. Shai ne ha paura, e bisogno.
Per raggiungere il proprio appartamento è costretto ad attraversare il piazzale antistante una caserma militare. Da questo momento in poi, ogni sera, Shai perde la capacità di ignorare. Le mura degli edifici improvvisamente sono, e sono aride e decrepite. I rami tornano contro i vetri delle finestre. Le pietre, le mancanze, le ombre, le infusioni, le smorfie, i tracciati, le storture, i gradienti, le zampe, le confezioni, le ginocchia, le goccioline, le sospensioni, le cavità, le macchie. Shai si sente riempire. Non di nausea, perchè quella appartiene ad un'altra storia. E' una colonizzazione parassita. Una necrosi e le dita che la penetrano per grattarla via. Un ectoplasma da rigurgitare durante una seduta spiritica. Il desiderio di di ustionarsi le mani lavandole con acqua bollente. "Credevi che saresti riuscito a resistere fino all'arrivo a casa, vero?"
Adesso, se Shai si mette a pensare, sente freddo. Non nelle membra, ma nei pensieri. Un dirigibile metallico attraversa il cielo, impassibile. Dei fari lo illuminano da terra, lo rincorrono. "Perchè ho voglia di fine? Perché mi sono insopportabili le necessità scambiate per verità? Perchè ho smesso di ridere e piangere alle finzioni antropomorfe? Perchè non provo più bisogno di particolare e di generale?". Il dirigibile è scomparso, e l'atmosfera torna viscosa ed elettrica. La pressione barometrica aumenta impercettibilmente. Cambia la geografia del cielo nuvoloso. Il riproduttore anameccanico ha scandito le gerarchie logiche, esaurendole. Ha individuato una contraddizione. "Le antiche filosofie sofiste teorizzavano l'inconoscibilità dell'essere, attraverso deduzioni logiche che avevano come presupposto l'incomunicabilità, discendente a sua volta dalla natura incompleta del linguaggio umano. La derivazione moderna è la teoria per cui sia impossibile giudicare un capo di abbigliamento se illuminato dalla luce al neon. Arriverà il nulla, e non avrà bisogno di servitori."
E non avrà bisogno di me.
Sono libero. E torno a casa.

26 settembre 2010

L'eterno ritorno in cuffia

Perché mai qualcuno dovrebbe riempire una bottiglia di coriandoli e lasciarla a testa in giù?
A volte ho lo sguardo perso di un gigante che non capisce la scala del mondo.
Tutte quelle lezioni di piano che non ho mai preso stanno finalmente dando i loro frutti.
Dopo molti anni ho cambiato lo spazzolino. Traumaticamente. Io e quello spazzolino abbiamo fatto molte cose insieme, cose come avventure. Cosa accadrà adesso?
Si può anche essere un set di posate.
Uno squittire della ruota in curva e di subito mi assedia una miriade di nostalgie di notte d'estate con i grilli intorno.
Dove sei statico?
E' forse una ignominia, da parte mia, togliersi la camicia prima di lavarmi i denti?
Il contrario di divieto è permesso od obbligo?
Mi è venuta la solitudine, ma è andata via e non torna più. Lasciandomi solo?
Mi perdo sempre la formazione delle nuvole. Arrivano da altrove e scivolano via, ma non vengono mai alla luce.
La carica più ambita nella società dei mulini a vento è quella di ministro della difesa.

Di notte le strade disgustose. Se accelero dimentico. Mi vengono gli occhi piccoli da insetto. I movimenti percepiti nel campo visivo periferico, mi danno la caccia, mi infestano. Che la pioggia si depositi pure sulle finestre, fatemi vedere in quanti parti si può frantumare il mondo fuori. In quante parti essere frantumati. Sto ossessionando sul come prima mai più. Non sono pronto, sono instabile e informe, dentro. Sui tremori di prima.

18 settembre 2010

Respiro sprofondo

Nil non sta ballando.
Non è qui per ballare.
Vuole più luce possibile dentro di sè.
Qui la luce si muove,
si muove nel modo giusto.
Ci sono anche corpi che si muovono.
Non sono i corpi i giusti.
Non importa.
Quando si muove la luce,
i corpi non si muovono più.
Va bene così.
Nil tiene gli occhi aperti.
Aperti come nessun altro.
Le iridi, a comando, dilatate.
Sottraendo la luce al movimento
rimane il tempo.
Dentro Nil è un visibilio;
pura matematica,
pura misura dell'ego,
dinamica minima dei cieli,
pura moda,
frazioni e rifrazioni.
Sono tutti riduzionisti,
e sono tutti linguisti.
Cercano tutti la lingua
parlata dalla soluzione.
Pensano all'industria
delle materie tessili.
Alle abbreviazioni.
Mentre cercano, ballano.
Ballano intorno al colpevole.
Nil non sta ballando.

05 settembre 2010

Circa in questo, quasi insieme

Per quei giramenti di testa: comincerò a pretendere che ogni cosa sia il riflesso della sua controparte rovesciata in cielo.
I numeri cinque scritti sul muro a volte sembrano delle mitragliatrici. Invece i soli assomigliano alle bandiere.
La polaroid è l'unità di misura che coniuga in sè spazio e tempo; ad esempio, la mia estate è stata di 3 milli-polaroid.
Nella storia di ogni cultura si narrano storie di antenati in viaggio, sui loro carri, alla ricerca della terra promessa. Di giorno cercando di fare più strada possibile, la notte accampandosi intorno al fuoco. Il falò delle carovanità.
Le mani non bastano mai. Le mani strutturano continuamente il riuso del corpo. Servono mani per diradare la nebbia e per mordere. Mani per brandire altre mani e mani per modellare le dune. Con le mani si avvicina la luna. Abbiamo bisogno delle mani per fare scelte e per bloccare l'anima quando cerca di uscire dalla bocca. Le mani rendono quotidiane le sovraimpressioni, come in: non hai fatto una buona prima impressione, ma sopra di te ho scattato la foto di un gatto.

25 agosto 2010

Le verità amorfe

Perché una sensazione può divenire messaggio solo indirettamente, come nelle metafore. Non cosa sia, dunque, ma cosa rimarrebbe al suo posto se non vi fosse più. E allora, quello che io provo. Io provo un biscotto di pasta frolla, che si spezza, che ha la forma che hai deciso tu (non dire cuore, per favore, non dire cuore) e dimenticato in fondo alla dispensa diventa il nido delle farfalline bianche. Io provo una cornice che racchiude le cose già messe a fuoco, ma che non oppone resistenza se si prova a toccarne la superficie (sì, è la mano che passa attraverso). Provo i cerchi nel grano fatti con lo stare a guardare le nuvole, che non sono cerchi e che questo forse, nonostante la spiga, non è nemmeno grano. Provo la fine prima del compimento. Le candeline spezzate che si tengono per lo stoppino. La confusione degli oggetti tutti al loro posto. Le catene di Markov. Io provo il contesto che si fa materia, con cui si erigono alte mura.

19 agosto 2010

Storia passeggera della tristezza, raccontata affettando un cotechino

I perfetti compagni di viaggio in treno sono in due, sono soli all'interno dello scompartimento e sono sconosciuti l'uno all'altro. Sono il Maliconico e l'Invadente. Il Malinconico era già nello scompartimento quando è salito l'Invadente. Non gli avrebbe rivolto neanche la parola se l'Invadente non lo avesse salutato per primo. L'Invadente porta scompiglio nell'ordinato e costante guardare fuori dal finestrino del Malinconico. L'Invadente comincia sempre parlando tra se' e se', fin quando uno di quei suoi monologhi esteriori non fa scattare la molla nella domanda meccanica: "E lei...?". A coronare il paradosso, l'Invadente trova che la maliconia dell'altro sia molto invadente, mentre il Malinconico pensa l'altrui invadenza come profondamente malinconica.

Non amo viaggiare in treno. Le motivazioni, se stessi ad elencarle, sono sicuro che sarebbero piene di piccolezze e banalità, questionucole di pura contingenza. Eppure, vi sono due questioni su cui il mio senso del dovere all'adattamento non riesce a prendere il sopravvento.
Per cominciare, il viaggio in treno calpesta i miei sentimenti. Il treno parte e arriva ad orari prefissati, quindi mio desiderio di arrivare non si trasforma in un'accelerazione. Di rovescio, nulla del mio non voler giungere a destinazione provoca un rallentamento. Non c'è modo di saltare le soste, neanche quando sembrano aumentare di frequenza più ci si avvicina alla meta. Non c'è modo di mettersi a girovagare per perdere tempo. Verso il bene o verso il male, un viaggio in treno si trasforma sempre in un esercizio di frustrazione.
Il secondo ostacolo è di natura letteraria. Il problema è che la scena del treno, come quella dello scompartimento, è stata sviscerata. Nel treno è successo tutto. Ogni umanità vi ha incontrato qualunque altra. Non v'è persona, animale, pianta o cosa che non sia stata su di un treno, con qualcuno a raccontarne la storia. E per quanto lo detesti, anch'io in questo momento non sto facendo altro che mettermi su di un treno insieme ad una storia, esaurendo anche questa possibilità. La mia unica speranza è che, come per le formule magica, l'ennesima ripezione della formula sia quella che infine fa scomparire l'oggetto della magia. Niente più storie di vaggio in treno allora, e si potrà tornare a bordo pieni di promesse di avventure.

16 agosto 2010

È solo strano, ma dopo cena è tutto passato

I fratelli immaginari fantasticavano di andare incontro ad una spiritualità fondata sul sangue: la perdita di sangue, l'ostentazione del sangue, la compravendita di sangue, le abluzioni nel sangue. Rincorrevano le porzioni di pastiera napoletana nel bosco, e quando le prendevano le appuntavano nei loro quaderni di tassonomia con grandi spilloni. A tavola erano soliti risputare il bolo nel piatto per fare giochi di prestigio. Giocavano al tiranno, a turno ordinavano all'altro di avvolgersi nel tappeto del salotto, scendere nelle fogne e affrontarle come rapide in un canyon.
I fratelli immaginari facevano soffiare il vento sulla tangenziale per vedere quale fosse il mezzo che si sarebbe ribaltato per primo. Smontavano i loro capricci e li nascondevano nei cavi tronchi degli alberi. Con esperimenti di elettrolisi, laminavano le loro gambe con oro e titanio; in quei momenti avrebbero potuto far piangere di rimorso un uomo adulto con un semplice sguardo seguito da una contrazione dei muscoli pubococcigei. Un giorno giocando a biglie inventarono il determinismo.
I fratelli immaginari, quando trovavano una grotta tra le montagne, sostituivano le stalattiti con aghi ipodermici e le stalagmiti con amministratori delegati. La lingua che utilizzavano per comunicare tra di loro era un misto di melodia, comicità, ametista, fiera di paese e metro da sarto. Potevano permettersi di lasciare il sapone fuori dal portasapone. Nessuno dimenticherà mai il giorno in cui decisero di abbandonare il paese, poiché la notte stessa, la costellazione del toro entrò dentro al pollaio per rubare tre uova.

09 agosto 2010

Scegli un colore e picchialo a sangue

La cucitura del cuscino sul dorso del mio collo, preme, le presto attenzione. Spero di non dimenticare le cose che ho toccato. Sono uno che rinnega lo sporco nei fazzoletti, qualcosa che prima era mio, o ero io. Se mi chiedeste dove trovare il peccato, vi direi di cercare nel passaggio dalla pianura ai monti.
Non credo all'abbracciarsi le ginocchia.
C'è quella parte del pollice, quella un po' più larga, dove si incontrano le due falangi: percossa contro gli oggetti produce un rumore legnoso e ho imparato ad usarla per tenere il tempo. A causa dei ritmi sincopati, fa male e ripenso alla scuola media e ai ragazzi popolari che tenevano per vezzo un anello di metallo intorno alla base del pollice. Suppongo che distinguere la foto di un tramonto da quella di un'alba sia solo una questione di concentrazione.
Mi avvolgo il fil di ferro intorno alle dita.
Provo a non essere troppo sicuro di me quando a penso a cosa è una gabbia e cosa non lo è. Pensieri che assomigliano a quello che volevamo fosse la filosofia, pensieri che sembrano messaggi che si fanno strada tral rumore bianco. Ho cominciato a coltivare un'ossessione ma è venuto fuori un bonsai. Mi fermo a guardare uno scarafaggio scavalcare un pelo pubico sul pavimento. I modellini in scala fatti con la carta si dividono in due categorie: i ruffiani e i prepotenti.
Se ora mi presti le mani ci gioco un po'.

25 luglio 2010

Di porte che sanno mangiare da sole

Una mano stringe la bacchetta e rimane sollevata sopra la testa, per frazioni di battuta. Come un oggetto lanciato in aria, che arriva al punto più alto della sua parabola e rimane fermo lì, esaurita la spinta iniziale, aspettando che altre forze facciano il loro corso. Manca poco prima che si abbatta sul timpano, con scarsa convinzione, con l'indolenza richiesta dalla canzone. Messe sullo spartito, quelle parole in italiano scritte in bella calligrafia, piene di grazie. Senza fretta. I faretti motorizzati si mettono a roteare di luce viola, a riconquistare l'attenzione di chi, in piedi di fronte ad un palco, si perde in fantasie inevitabilmente tangenziali. Un ecosistema, là sotto, popolato con fauna di disinteresse e flora di comatoso sbigottimento. Decine di corpi impegnati a traspirare, in gruppetti. Una stessa cosa con nomi differenti è fonte di confusione. Fossero molecole di acqua la si chiamerebbe tensione superficiale. Ma questi si chiamano essere umano l'un l'altro e allora questa cos'è? Paura? Abitudine? Gravità emozionale? In qualsiasi momento potrebbe entrare in sala una spedizione di speleologi, tenendo in mano torce di legno fiammeggianti, a rischiarare il cammino. Lo speleologo entra sempre con la testa bassa e inarcando la schiena. Lo speleologo, con la sua torcia, darebbe fuoco a tutto il vapore di alcol che campeggia su queste teste. La speleologia, come suonare la batteria, è distruzione.

18 luglio 2010

Agli alberi non importa

- Lo sai cosa mi piace dei numeri? Che vengono sempre uno dopo l'altro. Che sono così inequivocabili. Che non hanno bisogno di mistero per essere affascinanti. Si sa già quale sarà il prossimo numero, ma è nelle combinazioni che ci si può sbizzarrire.
Ti racconto a cosa penso quando non penso a niente. Mentre fuori è troppo pomeriggio per fare qualunque cosa. Mentre te ne stai in ginocchio sul letto e cerchi di dare una forma al tuo cuscino. Una forma qualsiasi. Adesso sembra un piccolo mammifero. Io stavo guardando te. So che non è necessario specificare che sto parlando solo dei numeri naturali. So che stai ascoltando, perchè non dici nulla.
- E nonostante tutto, non sono insostituibili. Se un giorno qualcuno rubasse tutti i 6 del mondo, non ci sarebbero grandi sconvolgimenti. Chi si dovesse trovare a contare, passerebbe direttamente dal 5 al 7, senza provare alcun rimorso.
Devo aver detto qualcosa di imperfetto. Sei passata dal silenzio-ti-sto-ascoltando al silenzio-sto-per-farti-una-domanda. C'è un codice morse anche per i silenzi. Un silenzio breve, due silenzi lunghi. Il problema sono le pause.
- Non stai dimenticando qualcosa?
- Cosa?
- Non pensi a chi abita al civico numero 6? Non troverebbe più la strada di casa! E i bambini di 6 anni? Destinati ad avere la stessa età per sempre! E quelli in viaggio, che si trovano al km 6 di un'autostrada? Senza possibilità di andare avanti o indietro! La loro unica salvezza sarebbe trovare uno svincolo in quei mille metri. Uno di quelli che porta ad un paesino sperduto tra le colline, con un nome improbabile tipo Poggio Pipetta. Dovrebbero inventarsi una nuova vita lì, mettere su casa, invecchiare e morirci.
Mi stai facendo sentire un tiranno, e la sensazione mi intriga. Ma sono io che ho strappato la trama delle vite di queste persone, rimaste intrappolate in mezzo al 6? Provo a recuperare.
- Non possono esserci solo cose positive intorno al 6. Magari c'è un uomo che sta cadendo da un palazzo e si trova a 6 metri da terra. Quando il 6 scompare, ha salva la vita. Se per ogni 6 buono scompare anche un 6 cattivo, l'equilibrio dell'universo è preservato.
- E le coppie che si sono conosciute il giorno 6? Si vogliono ancora bene dopo?
- Non lo so. A questo non ho pensato.
- Credo che sentirei la mancanza del 6. Mi piace il 6, è un bel numero. Non bello come il 4, ma bello.
Il tuo cuscino è volato via, a qualche metro dal letto. Ti stendi accanto a me e allunghi un braccio sul mio petto. In cielo passa una nuvola che non assomiglia a niente.

04 luglio 2010

Non voglio dirti cosa fare con le tue ginocchia. Voglio solo ricordarti che indicare non è buona educazione.

I re barbari adoravano i gioielli, soprattutto quelli verdi, e odiavano i test di trigonometria. Ci facevano sopra disegni di soli e rune. I genitori dei re barbari non permettevano loro di tenere telefoni cellulari, perchè temevano che potessero distrarsi mentre andavano a cavallo ed essere disarcionati. Allora i re, per ripicca, ogni volta che davano fuoco all'abitazione di un povero contadino, lasciavano sulle macerie fumanti un gatto vestito con una tunica bianca. Quando i re barbari si sposavano, le mogli erano molto belle e i re molto grassi. Dopo qualche anno le mogli diventavano molto grasse e i re allora andavano in guerra. Quando tornavano dalla guerra portavano in dono alle loro regine scatole di cioccolatini e musicassette. Tutti i gioielli del bottino li tenevano per sè, soprattutto quelli verdi. Le regine passavano le ore ad ascoltare le cassette dei duran duran e a provarsi nuovi vestiti. Le vecchine per le strade raccoglievano spezzoni di nastro magnetico; li cucivano insieme, li remixavano e poi li rivendevano, il giorno del mercato, sui loro banchetti di legno. I giovani si tenevano per mano perchè avevano solo le mani. I re barbari, oltre alle mani, avevano grossa considerazione e quindi si tenevano anche in grossa considerazione. I re barbari non tenevano le regine barbare per mano, per timore che queste sfilassero loro dalle dita gli anelli verdi. L'epopea dei re barbari si concluse quando fu inventato il tè. L'invenzione del tè permise agli uomini di creare i country club e i campi di golf, dai quali i re barbari furono presto esclusi a causa del loro parlare ad alta voce e del loro vezzo di usare bulbi oculari umani al posto delle palline da golf.

29 giugno 2010

Carta da parati per i pensieri

Ci sono coloro che vorrebbero mangiare i fiori, che sono diversi dai mangiatori di Loto. L'unico oblio che li interessa sono le orecchie piene di vento. Ad esempio: Il mondocielo, la voce del verbo stare e la direzione sbagliata possono coesistere solo in uno specchietto retrovisore.
Ci sono idee della realtà che sono un po' menzogne, che possono rovinare un pomeriggio. Ad esempio: nuotare con addosso il peso simbolico di un animale comune.
Ci sono momenti sporchi, sottili millimetri, che estinguono qualunque cosa nel raggio di km e non hanno bisogno di scavare per piantare un germe. Ad esempio: "Fermi... Sorridete... Fatta."
Ci sono permutazioni di punti di vista che celano il tedio invisibile alla fantasia pigra. Ad esempio: la differenza tra stare dentro una nuvola e stare fuori a guardare qualcuno dentro una nuvola.
Ci sono errori che mettono radici, su cui ti puoi dondolare, sotto cui puoi sonnecchiare, che non puoi abbattere perchè lì ci giocavo da bambino. Ad esempio: tentare di fermare, con le mani, le cose che tremano. Tentare di fermare le cose, con le mani che tremano.

29 maggio 2010

L'oggetto in sindrome (la trasformazione de)

Una derivazione di quel circuito elettrico che è l'anima, il pianoforte. Lì al pianoforte ci si sta bene murati dentro; ed è come un mammifero che, per nutrire il proprio cucciolo, prende per sbaglio tutta la sua testa dentro la bocca. Il pianoforte è un sasso ed io sono lo stagno. Il filosofo si chiede: Il pianoforte è tensione o tranquillità? Qualcuno dalla galleria risponde: Ci sono le cose del mondo che si aspettano di essere sollevate, dal basso verso l'alto. E poi ci sono i tasti del pianoforte.

A nessuno capita mai, quando si è in attesa al ritiro bagagli dell'aeroporto, di essere il possessore della prima valigia ad uscire. Credo che il personale aeroportuale ponga una valigia fittizia in testa a tutte le altre, che agisca come anestetico per le masse in attesa.

Rimane solo da mettere tutti i numeri in cielo, e aspettare che il vento risolva il problema.

13 aprile 2010

Hai visto quella donna francese col suo strano modo di mangiare un arancio?

La morte me la immagino in reggicalze.

Alcune navi si arenano così profondamente che a volte il mare si dimentica di essere mai stato lì. Le navi che si arenano sono le più orgogliose, sono quelle che dicono: "non osare dirmi dove posso o non posso navigare".

Il mondo decide dove si trova l'acqua, noi decidiamo quanto bagnarci.

Parlando da fantasma: anche io preferirei infestare un castello. Essere immateriali non vuol dire non essere pigri.

E' un peccato che la luce debba sempre venire da qualche parte. Sembra così impaziente. Va bene quando la luce viene da dietro i tuoi capelli, come è la dissolvenza del the, molecole, ma morbide. Forse la luce si porta dietro la propria casa, come fanno le chiocciole.

31 marzo 2010

Tutte le mani possibili

Per gli amanti della primavera, la primavera è una gran seccatura. A volte per mettere in discussione un'identità basta un campo di papaveri, un pallone fatto con la gomma da masticare, riconoscere un posto dalle nuvole.

Io ho una testa, che è come una tazza di the. Quando le cose si fanno interessanti, si forma una nuvoletta di vapor acqueo sulla sommità. Poi certo c'è anche il the freddo, ma quello è ripensarci dopo, a mente fredda.

Vorrei capire come il bianco e nero influisca sullo scorrere del tempo.

Io ho una teoria. Io non sono d'accordo. Io non sono d'accordo e ho una teoria. Io ho una teoria anche quando non ho una teoria, perchè ho una teoria sul perchè non ho una teoria. Io ho una teoria anche quando sarei d'accordo in teoria, ma poi non sono d'accordo. Quando penso troppo di avere una teoria, finisce che non sono d'accordo, perchè avere una teoria non basta e mi sembra troppo facile. Quando penso troppo di non essere d'accordo, finisce che non sono d'accordo sul non essere d'accordo, perchè non essere d'accordo non basta e mi sembra troppo facile. Tutto ciò potrebbe sembrare strano, ma non sono d'accordo. Anzi si può spiegare facilmente, e io ho una teoria.

E tu che, sul mio foglio da disegno gigante, potrai disegnare sempre.

27 marzo 2010

di moto dovuto

Dicevano che le ore di disegno erano obbligatorie, che non si poteva uscire. Eppure in quelle stesse ore continuavano a ripetere questa cosa dei punti di fuga. Ho creduto mi si stesse mettendo alla prova.
In seguito avrebbero detto che ero scappato, ma io penso che non sia giusto dire che si sta scappando quando invece si è alla ricerca di qualcosa. Il mondo fuori era un luogo mitologico, disseminato di strutture pericolanti, cavi scoperti, schegge di vetro nella pelle, alte tensioni. Di possibilità, insomma.
C'erano invenzioni umane con una direzione, come le strade, i binari. Ho imparato presto che si doveva rispettare la direzione, sopra di tutto. Non attraversare i binari, così era scritto. Fai tutto quello che vuoi, ma non attraversare i binari. Non sei più uno dei nostri, se ti azzardi.
Inseguivo le cose che mi piacevano, finché non scomparivano loro, o non scomparivo io. Allora mi fermavo e mi mettevo a dormire. Ho sognato spesso me, sopra una piccola barca di legno bianco e nero, e tutto intorno acque placide. C'era anche il cielo stellato, ma le costellazioni cambiavano ogni volta. Nel sogno mi sdraiavo sul fondo della barca, guardavo in alto e mi chiedevo di cosa preoccuparmi: del non avere un porto o una riva di destinazione, del non sapere in che direzione remare per raggiungerli o del non avere niente per remare.
Non mi faceva paura niente, ballavo anche. Ballare non sarebbe stata una catastrofe, se essere ballerini non volesse aver detto somigliare tanto a dei camerieri... così gentili e disinvolti, e al contempo così uguali a se stessi. Non ho mai capito perché tutti avessero bisogno di un paio di scarpe per ballare.

13 marzo 2010

ragazzo grammaticalmente emancipato

Gli amanti del deserto non sanno dove nascondersi quando arriva il marito del deserto.

Ogni goccia che cade è una lettera che faceva parte di una parola. L'asfalto bagnato dopo la pioggia è un'epopea sgangherata, il giaciglio su cui non ha mai pianto nessuno è un cuscino senza titolo, un rubinetto che perde nella notte è la storia scritta per ricordare che terrorizza la storia scritta per dimenticare.

Io non credo alle pagine dei libri che volano via, ai centri estivi apertura il 9 giugno, ai personaggi dei telefilm che portano i nomi dei filosofi. Eleganza non sono alberi piantati lungo una linea retta, piuttosto scarpe di quattro misure più grandi. Ci sono delle mattine in cui mi sento eviscerare dal freddo ginecologico dell'aria, quando i pensieri mi rimangono attaccati alla simmetria di certe banchine della metro A, come la lingua sul ghiaccio. Evito di passare davanti alle edicole, perché non mi interessano il feticismo quotidiano per ultimi sette giorni e le grandi eiaculazioni astrofisiche di cosmi lontani, sbattute sulle prime pagine da riviste scientifiche senza pudore. Non riesco a conciliare questa città con me che l'attraverso. Non si giustificano in una sola idea queste corporazioni di silenzio e una tale messe di slogan, le calze rotte e le stelle sulle scarpe, le isole spartitraffico e i nascondigli tra le siepi, i secondi piani dei caffè e la neve di plastica, vagabondare con le cuffie addosso e nessun posto dove infilare il jack. In bocca, provo nella mia bocca.

26 gennaio 2010

Puoi fidarti di me, ho ingoiato un lucchetto

Si vuole ora dimostrare come la parola "amore" rappresenti un jolly per tutti coloro che aspirino a scrivere una similitudine, od un arguto aforisma. Segue una dimostrazione per enumerazione, tentando l'autore improbabili accostamenti. È dunque lasciato all'accorto Lettore il giudizio sulla bontà della tesi.

L'amore è come un tubetto di dentifricio: quando qualcuno lo usa, la volta successiva sarà piu' difficile tirarne fuori qualcosa.

L'amore è come un cassonetto dei rifiuti: per incontrare qualcuno che se ne prenda cura bisogna attendere la notte.

L'amore è come la cisterna d'acqua del water: si svuota molto facilmente, ma dopo serve del tempo prima che possa essere usato di nuovo.

L'amore è come l'Ucraina: sei sicuro che esista, ma non sai quante persone ci siano dentro.

L'amore è come l'inferno: "Da fuori sembrava meglio".

L'amore è come un carapace: ti ci puoi nascondere dentro, soprattutto quando cercano di calpestarlo.

Funziona con tutto, davvero.

10 gennaio 2010

coserosse

"Da bambina ritagliavo tutte le foto su cui riuscivo a mettere le mani e le appuntavo al muro della mia camera. Lo facevo per non vedermele passare davanti agli occhi quando mi sdraiavo sul bordo del fiume, per specchiarmi. Sentivo i grandi raccontare tante storie strane, e già non mi fidavo più di quello che poteva portare la corrente."

Una fisarmonica trattiene il fiato per ogni istante in cui non viene suonata. Può respirare solo quando il musicista sgancia i nastri che la serrano a se stessa in un abbraccio di cuoio.

"C'erano delle volte in cui mi fermavo in mezzo ad un sentiero, mi liberavo le caviglie dai lacci delle scarpe e attraversavo lentamente il letto di foglie gialle che si formava durante l'autunno. Se qualcuno mi avesse fermato e mi avesse chiesto perché lo facevo, probabilmente gli avrei detto: "Per rispetto."

E' un abbraccio da matti, come tutte le cose che sono sincere ma ti si rinchiudono addosso. Ho paura quando penso che lo strumento possa parlare a me, ma non con me.

"Desideravo religiosamente avere i capelli lunghi. Odiavo fare il bagno nei giorni freddi, ma mi piacevano le goccioline di vapore che si depositavano su ogni cosa. Mi lasciavo scivolare sul fondo, guardavo il soffitto galleggiare e mi chiedevo che sensazione sarebbe stata vedermi i capelli ondeggiare davanti agli occhi, come immaginavo succedesse alle sirene."