Quando dopo ore finalmente rincasi -perché va bene la festa, ma che fatica- e l'unico desiderio che riesci a esprimere è quello di stenderti sul tuo letto. Via i vestiti, via la luce. Quando chiudi gli occhi e scoppia un silenzio del tutto nuovo. Le orecchie continueranno a fischiarti per qualche minuto, e poi oblivione. E il giorno dopo ti scopri addosso i segni di una serata che sembra non esserci mai stata. Le vie respiratorie ancora piene di polvere, fumo, odore di polvere da sparo esplosa. La gola secca e affaticata, la voce incerta. I tendini delle caviglie ancora tesi e doloranti per i troppi salti. Negli occhi gli sguardi della gente, meravigliati ed interrogativi: non sai perché ti squadrassero in quel modo strano. Forse per quel giro in fontana. Non se lo aspettavano.
"Tu sei campione del mondo". Ma chi, proprio io? Io c'ero, lo posso pure dire. Io c'ero, e nei momenti di lucidità che il branco concede alla singolarità, sono stato triste. Triste, finché la stanchezza non ha avuto il sopravvento. Triste perché l'abbraccio che avresti voluto vicino, era troppo lontano. Triste perché il commentatore con voce rotta cantilenava: "guardate chi avete accanto, perché non lo dimenticherete mai" ed io pensavo a chi non avevo accanto.
Poi qualcuno ti prende per mano per non perdersi nella folla: sai che quel gesto non ti potrà consolare di tanti altri che ti mancano, ma nonostante questo vorresti che quel contatto non avesse fine. Ma poi, quando si interrompe, alzi lo sguardo. E rifiutando di mettere a fuoco ogni singola cosa, guardi la folla come fosse pioggia. E rinunci a trovarci un senso.
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