21 agosto 2006
Cosa ci vorrà mai per accendere un fuoco sulla spiaggia, così alto da essere visibile anche dietro di noi
Io me lo ricordo l'orologio della stazione. Interminabile. Così tondo, senza numeri, ineluttabile. Mi ricordo i ritardi dell'ultimo treno, l'ultima corsa per il mondo che non rifiuta nessuno, per il mondo che al massimo viene rifiutato. Mi ricordo anche il fazzoletto bianco, la camicetta azzurra e la gonna bianca, sempre in attesa di esibirsi in una ruota, o cedere un lembo al vento di aprile. Se ci si domanda: "chi sono?" si finisce per rispondersi "sono quello che gli altri fanno di me". Non si può essere ciò che si crea, perchè la creazione è un atto folle e illogico, destinato a produrre una distruzione, prima o poi. Quindi la sensazione che rimane in fondo alla bocca e in fondo agli occhi è di essere stati dimenticati dalla gravità. Tutto mantiene il suo peso, tranne te. E mentre ti stai sollevando da terra, che nulla più ti tiene legato al suolo, cerchi di aggrapparti a qualcosa. Ce la fai, ma è scomodo. Allora provi a cambiare la presa, ma la tua provvisoria àncora ti sfugge di mano. E voli via. Ti chiedi dove andrai a finire, e se ci sarà una fine. Se tutto tornerà alla normalità, o se questa diventerà la nuova normalità. Io me la ricordo la storia di quella ragazza. Quella ragazza che parlava allo specchio. Faceva anche la ruota, con la sua gonna, davanti allo specchio. Chi la vedeva, pensava parlasse con l'immagine riflessa di sè stessa. Nessuno si accorgeva che lei, in verità, parlava proprio allo specchio. E quella ruota e quegli sguardi non erano una manifestazione di vanità. Erano schermaglie d'amore, semplicemente.
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