Son gigante nano, umano troppo umano,
Son primo ballerino, vacuo canterino,
Son senza disdoro, sono un sicomoro,
Sono il probo viro, sono sotto tiro.
Sono un'entità, sono sua maestà,
Sono un infingardo, primo baluardo,
Sono un mastodonte, son Bellerofonte,
Sono il tuo sensei, sono chi per lei.
Sono ben vestito, son disinibito,
Sono acculturato, son disoccupato,
Sono surrettizio, sono caio e tizio,
Sono l'entropia, nel cappello della zia.
Ma tutto quel che sono,
non ve lo posso dire,
a dirlo non son buono,
mi proverò a cantar.
***
Un mostro salato, ecco cosa. Dopo che è evaporata la fatica di sollevarsi, mi rimane sulla pelle questo sapore alcalino. L'attaccapanni di me stesso, riflesso attaccabrighe e la superiorità delle bretelle. Vuoi sapere quali canzoni non posso fare a meno di ascoltare in questo periodo? Desideri conoscere i titoli dei libri che ho appena comprato?
Sono morto, in tutti i modi in cui è possibile morire se ci si muove ancora.
Per quanto mi riguarda, abbiamo infranto tutte le regole dell'abbandono. Ieri ho preso per mano una turista giapponese (i giapponesi si riconoscono perché, rispetto ai cinesi, sanno posare uno sguardo meno disilluso, meno ancestralmente esausto, sulle cose sconosciute) e le ho fatto fare una giravolta. Spero che metta una buona parola per me con il signore degli accadimenti statisticamente improbabili.
Per sempre fermi nel pomeriggio dell'ultimo giorno di scuola.
15 giugno 2008
08 giugno 2008
Guerriglierotica
Sono giorni di n'ubi e s'ole.
Resto abbastanza sicuro che i Garbage non cantassero "The trick is to keep briefing".
Le femmine scelgono i maschi in base al numero di cubetti nel sangue e a colpi di Dimmi che starai con me.
Vola alto sopra la tua testa e poi ti attacca alle spalle, subdolo, il voltagabbiano.
Dove sono andate a nascondersi le ragazze con i fiori tra i capelli?
Anarch'io, anarch'io! E se mi arrabbio, ti spacco il centro del loto.
Se dura così poco non è felicità, ma autoipnosi.
Ci chiamavano allievi, ma non avevamo nulla di lieve. Eravamo, piuttosto, animali da allievamento.
Tu, che sei la mia campagna di russia.
Sì, vabbè, ma che insomma.
Resto abbastanza sicuro che i Garbage non cantassero "The trick is to keep briefing".
Le femmine scelgono i maschi in base al numero di cubetti nel sangue e a colpi di Dimmi che starai con me.
Vola alto sopra la tua testa e poi ti attacca alle spalle, subdolo, il voltagabbiano.
Dove sono andate a nascondersi le ragazze con i fiori tra i capelli?
Anarch'io, anarch'io! E se mi arrabbio, ti spacco il centro del loto.
Se dura così poco non è felicità, ma autoipnosi.
Ci chiamavano allievi, ma non avevamo nulla di lieve. Eravamo, piuttosto, animali da allievamento.
Tu, che sei la mia campagna di russia.
Sì, vabbè, ma che insomma.
25 maggio 2008
La decadenza dei costumi è una caratteristica delle società dell'abbondanza
Tanta gente in questo posto crede che io sia figlio di un incubo. Ci sono delle mattine in cui la mia pelle è troppo bianca e trasparente. Sotto, le vene scure mi sembrano le screpolature del muro dietro di me. A volte penso che sarebbe sufficiente che qualcuno mi soffiasse contro. Io cadrei, spaccato come un vecchio intonaco. Ci sono delle sere, quando resta solo il buio, che il soffitto della camera in cui dormo prende fuoco. Non sento il calore, ma vedo le fiamme. Quando succede, mi basta chiudere gli occhi: quando li riapro, il fuoco non c'è più. Una sera ho tenuto gli occhi aperti. Il fuoco è sceso lungo le pareti. Quando stava per toccarmi ho provato paura e freddo e non sapevo se avevo più paura o più freddo e allora ho chiuso subito gli occhi. Ora, ogni volta che va a fuoco il soffitto, chiudo sempre gli occhi.
Quando viene la pioggia, vado a sedermi sulla panchina in veranda. Guardo piovere. Mi piace la pioggia, perchè rende le cose più scure, e più scuri anche i movimenti di chi l'attraversa. Najla viene a sedersi con me. Guarda la pioggia con me. Dice: "E' bella la pioggia". E anche se non si potrebbe, io capisco che ne sta parlando come di qualcuno, non di qualcosa. Per lei la pioggia ha un corpo, che comincia e finisce in un dove, e non in un quando. Dovunque piova, cade la stessa pioggia. Come una donna, si lascia aspettare o ama tragicamente, e allora non se ne vuole più andare. Io non dico niente, così lei sa che le sto dando ragione. Restiamo in silenzio, guardiamo solo davanti a noi. Se non è lei la prima a rientrare a casa, sono io ad alzarmi e ad andare a camminare sotto la pioggia. Non mi volto indietro fino a quando non c'è più differenza tra quello che i miei occhi sentono e quello che la mia pelle vede. Allora torno a casa, mi spoglio nudo, stendo i vestiti ad asciugare e mi addormento, con in testa una rivoluzione.
Quando viene la pioggia, vado a sedermi sulla panchina in veranda. Guardo piovere. Mi piace la pioggia, perchè rende le cose più scure, e più scuri anche i movimenti di chi l'attraversa. Najla viene a sedersi con me. Guarda la pioggia con me. Dice: "E' bella la pioggia". E anche se non si potrebbe, io capisco che ne sta parlando come di qualcuno, non di qualcosa. Per lei la pioggia ha un corpo, che comincia e finisce in un dove, e non in un quando. Dovunque piova, cade la stessa pioggia. Come una donna, si lascia aspettare o ama tragicamente, e allora non se ne vuole più andare. Io non dico niente, così lei sa che le sto dando ragione. Restiamo in silenzio, guardiamo solo davanti a noi. Se non è lei la prima a rientrare a casa, sono io ad alzarmi e ad andare a camminare sotto la pioggia. Non mi volto indietro fino a quando non c'è più differenza tra quello che i miei occhi sentono e quello che la mia pelle vede. Allora torno a casa, mi spoglio nudo, stendo i vestiti ad asciugare e mi addormento, con in testa una rivoluzione.
11 maggio 2008
Grufolare oggi
Manca solo una storia.
Misurandolo in passi, mi assicuro che il mondo esista ancora.
Una chiave non è più importante della combinazione segreta tra i suoi denti. Aprire una porta serrata condivide la natura di attraversarla, avendo quella combinazione tatuata sulla pelle. Allora esiste un segno da cui interpretare ogni combinazione, sul quale modellare ogni chiave possibile.
Svanire, farsi proiettare. Soffiare, farsi tentare. Godere, farsi dominare. Annegare, farsi disarmare.
Limiti personali da ricercare nelle righe a matita del proprio ritratto. In uno schizzo veloce molte linee si confondono, perché la verità e il suo attimo sono transitori.
Aveva un numero enorme di amici. Decise di riunirli nel medesimo luogo, nel medesimo giorno, affinché tutti conoscessero tutti. Non ci furono superstiti all'esplosione combinatoria.
Come ogni aspirazione, quel desiderio era intangibile, ma tassabile.
Viveva la sua vita su di un'altalena. E poiché lei era fatta di cassetti, avanzava chiusa e s'apriva in fuga, arretrando.
Misurandolo in passi, mi assicuro che il mondo esista ancora.
Una chiave non è più importante della combinazione segreta tra i suoi denti. Aprire una porta serrata condivide la natura di attraversarla, avendo quella combinazione tatuata sulla pelle. Allora esiste un segno da cui interpretare ogni combinazione, sul quale modellare ogni chiave possibile.
Svanire, farsi proiettare. Soffiare, farsi tentare. Godere, farsi dominare. Annegare, farsi disarmare.
Limiti personali da ricercare nelle righe a matita del proprio ritratto. In uno schizzo veloce molte linee si confondono, perché la verità e il suo attimo sono transitori.
Aveva un numero enorme di amici. Decise di riunirli nel medesimo luogo, nel medesimo giorno, affinché tutti conoscessero tutti. Non ci furono superstiti all'esplosione combinatoria.
Come ogni aspirazione, quel desiderio era intangibile, ma tassabile.
Viveva la sua vita su di un'altalena. E poiché lei era fatta di cassetti, avanzava chiusa e s'apriva in fuga, arretrando.
05 maggio 2008
Nightclub con nomi di cani
Scriverei perché costa meno di una rinoplastica.
Scriverei perché ho abbandonato due volte le lezioni di piano.
Scriverei per la storia della donna iceberg, immersa ed immensa.
Scriverei per decidere finalmente se il contrario di scrivere sia non scrivere, o cancellare.
Scriverei perché esistono collezioni di memorie, di memorie perse, di memorie di uomini che si sono persi.
Scriverei per fantasticare di poter scrivere.
Scriverei affinché i pugni sul muro non rovinino l'intonaco, perché il sangue sulle nocche escoriate non imbratti il candore altrui.
Scriverei perché il lessico è chimica.
Scriverei che non feci un respiro profondo, perché abito al quarto piano e non c'era rimasto niente da respirare.
Scriverei perché ho i lemmings nella pancia.
Scriverei graffi al posto di errori.
Scriverei per supplire alla cronica mancanza di occhi grigi nel mondo.
Scriverei perché voglio un alibi quando non ho niente da dirti.
Scriverei perché ho abbandonato due volte le lezioni di piano.
Scriverei per la storia della donna iceberg, immersa ed immensa.
Scriverei per decidere finalmente se il contrario di scrivere sia non scrivere, o cancellare.
Scriverei perché esistono collezioni di memorie, di memorie perse, di memorie di uomini che si sono persi.
Scriverei per fantasticare di poter scrivere.
Scriverei affinché i pugni sul muro non rovinino l'intonaco, perché il sangue sulle nocche escoriate non imbratti il candore altrui.
Scriverei perché il lessico è chimica.
Scriverei che non feci un respiro profondo, perché abito al quarto piano e non c'era rimasto niente da respirare.
Scriverei perché ho i lemmings nella pancia.
Scriverei graffi al posto di errori.
Scriverei per supplire alla cronica mancanza di occhi grigi nel mondo.
Scriverei perché voglio un alibi quando non ho niente da dirti.
03 maggio 2008
Se si può parlare di minuti in una camera immersa nel buio
Elettropiantala
Dei desideri espressi da una stella che vede un uomo cadere
Se vuoi puoi tenermi la mano mentre ci sfracelliamo
Disse lo stoico skinhead: "No Diogene, botte!"
Sutura politica: Piovono inani
Ho sonno che non ho chiesto
Essere desiderati non è una proprietà della perfezione. Desiderare lo è. Il perfetto non è desiderato dall'imperfetto, il perfetto desidera l'imperfetto e il perfetto-se-stesso. Dunque la perfezione è una proprietà che si propaga verso l'alto.
Non la solitudine della perfezione, ma la perfezione della solitudine.
Le cose iniziarono a complicarsi quando al mio amico immaginario diagnosticarono un disturbo paranoide della personalità.
Il ciclone era tutto e solo occhio. Nonostante ciò, abbiamo ritirato le nostre antenne. Le trasmissioni riprenderanno, in qualche modo.
Dei desideri espressi da una stella che vede un uomo cadere
Se vuoi puoi tenermi la mano mentre ci sfracelliamo
Disse lo stoico skinhead: "No Diogene, botte!"
Sutura politica: Piovono inani
Ho sonno che non ho chiesto
Essere desiderati non è una proprietà della perfezione. Desiderare lo è. Il perfetto non è desiderato dall'imperfetto, il perfetto desidera l'imperfetto e il perfetto-se-stesso. Dunque la perfezione è una proprietà che si propaga verso l'alto.
Non la solitudine della perfezione, ma la perfezione della solitudine.
Le cose iniziarono a complicarsi quando al mio amico immaginario diagnosticarono un disturbo paranoide della personalità.
Il ciclone era tutto e solo occhio. Nonostante ciò, abbiamo ritirato le nostre antenne. Le trasmissioni riprenderanno, in qualche modo.
02 aprile 2008
Ma tu guarda al giorno d'oggi a uno cosa gli tocca fare solo perchè possiede un cavallo e quelle due nozioni di spada
Il canovaccio è quello classico: lei è la principessa da salvare, indifesa, sulla torre più alta del castello; lui è il cavaliere senza macchia nè paura che sfida i pericoli per venirla a salvare.
In mezzo, il drago.
E non sia che la principessa cominci a preoccuparsi: "Oh, no, non venire, è troppo pericoloso, potresti farti male". Oppure "sono una principessa moderna e femminista, faccio da me". Ad ognuno il proprio ruolo: lei sbatta le palpebre ammiccante, lui squarci o diventi cibo per draghi.
Come volevasi dimostrare, al nostro cavaliere tocca la principessa iperattiva. Che non riesce a stare ferma ad aspettare che la vengano a salvare. Inizia a scavare una galleria per scappare. Ovviamente quando arriva il cavaliere, non la trova. Invece lei, nel suo penetrare prima la pietra delle mura e poi il terreno, si imbatte in qualunque stranezza. E visto che, oltre ad essere iperattiva, è anche facilmente distraibile, viene continuamente deviata dalla sua strada e si mette a seguire gli esseri più improbabili. Questo ovviamente non le impedisce di continuare a lamentarsi lungo la strada. Ed è l'unica nota positiva, visto che il cavaliere riesce ad inseguirla seguendo l'eco delle sue lagnanze. Il poveretto continua a ripetersi: "So principesse, che ce voi fa? Se era facile mica ci scrivevano sopra una favola".
Nel suo cammino, la principessa finisce in un luogo strano: la valle degli specchi captivi. Mentre l'attraversa gli specchi catturano la sua immagine e la imprigionano dentro di loro. La principessa, ora senza immagine, scappa impaurita. Quando arriva il principe, crede di averla finalmente raggiunta. Ma è solo un trucco degli specchi! Glielo fanno credere per tenerlo loro prigioniero. Sembra che tutto stia per finire male!
All'improvviso, la musica.
Un menestrello di nome Roberto Scalco, che passava lì vicino, stava cantando il suo più famoso successo: "Pitture di te". Fa così:
"ho guardato così a lungo queste pitture di te
che ho quasi creduto fossero vere
ho vissuto così a lungo con queste pitture di te
che ho quasi creduto fossero l'unica cosa potessi sentire"
Sono le parole magiche fanno risvegliare il cavaliere dal suo incantesimo! Subito sfodera la spada, rompe gli specchi e libera l'immagine della sua bella principessa. Di nuovo all'inseguimento, presto!
E poi e poi?
E poi la principessa viene catturata dall'esercito delle termiti. La legano e la portano nella loro enorme tana.
Se la mangiano?
No, non la mangiano! Al suo arrivo, la regina delle termiti la vede e a causa della grande bellezza della principessa, viene accecata dalla gelosia. Ordina che il giorno dopo, all'alba, venga giustiziata. La principessa è disperata, passa la notte in lacrime, temendo per la propria sorte. Ma allo scoccare della mezzanotte...
...un'esplosione! Grande caos nella tana delle termiti. si sentono voci che parlano di guerra!
Anche le guardie delle celle vengono richiamate in battaglia. La principessa tenta di scappare, ma era stata murata nella sua cella.
Guerra per cosa?
La guerra era scoppiata con le formiche della tana accanto. In uno scontro, occorso il giorno precedente, le termiti avevano ucciso la regina delle formiche. Ora le formiche vagavano come impazzite senza una guida. Erano finite nella tana delle termiti, ed erano ripresi gli scontri. La battaglia andò avanti per tutta la notte, fin quando, all'alba, un grido si alza sul campo di battaglia:
VITTORIA!
Le formiche avevano vinto. Tutti i prigionieri furono liberati e condotti nel formicaio, come eroi di guerra. Tra loro, c'era la nostra principessa. Alla fine dei festeggiamenti della vittoria, il sommo generale delle formiche si presentò alla principessa e le disse: "Principessa, come avrà capito, noi siamo rimasti orfani della nostra regina. In battaglia abbiamo avuto grandi perdite, ma anche la fortuna di trovare lei, arcinemica delle termiti, come noi. Le chiedo ufficialmente: Vuole diventare la nostra regina?".
la principessa si sentì onorata ed emozionata, ma ancora scossa per pericolo appena scampato. Ripensò a tutti coloro che aveva lasciato lontano è provò nostalgia. Ma tutte quelle antennine sull'attenti per lei la riempiono di orgoglio regale. E forse, a causa del suo nobile istinto, accettò. Ripresero i festeggiamenti, per la nuova incoronazione. Cibo e bevande a fiumi, doni da tutte le parti del mondo sotterraneo per la nuova regina. Ma ecco, nel pieno dei festeggiamenti, arrivare il cavaliere!
Finalmente! Ce l'ha fatta! si dice in cuor suo.
Riesce ad ottenere immediatamente un'udienza con la principessa-regina. Senza pensarci, le propone di andare via con lui, subito.
Ma lei non deve regnare?
"Scappa con me! Ti ho inseguita fin qui! Ho superato mille pericoli per te!"
La principessa è colma di riconoscenza per il cavaliere: in altre circonstanza non avrebbe esitato un attimo...
...ma ora...
"Ora ho un regno da custodire! Loro sono i miei sudditi, hanno bisogno di me! Ho accettato di regnarli e non mi tirerò indietro"
Il cavaliere non riesce a credere alle proprie orecchie! E' tutto un brutto sogno!
Guardando negli occhi la principessa, capì lei che faceva sul serio. Decise però di tentare un'ultima carta:
"Regina, sono fiero di essermi battuto per voi. Vogliate lasciare al mio cuore un'ultima speranza. Vi prego di accompagnarmi in superfice: lì mi ripeterete queste vostre parole. Se vi riuscirete, io me ne andrò per sempre e accetterò la vostra decisione."
La principessa accettò. Fecero per uscire dalla tana delle formiche, quando un plotone di formiche sbarrò loro la strada.
"Cosa significa?" chiese la principessa.
"Mi dispiace mia regina, ma abbiamo l'ordine di non farvi uscire dalla tana"
"Ma che insolenza! Io sono la vostra regina e sto accompagnando il mio ospite fuori dalla tana! vi ordino di lasciarci passare!"
"Perdonatemi, vostra altezza! Egli è libero di andare, ma a Voi non è concesso"
"COME VI PERMETTETE! ESIGO DI PARLARE IMMEDIATAMANTE CON IL GENERALE!"
Venne fatto chiamare il generale delle formiche. La principessa è su tutte le furie.
"Generale, vi sto chiedendo conto dei vostri ordini! A me, la vostra regina, viene proibito di uscire dalla mia tana! E' inaudito!"
"Mi spiace regina, ma per la vostra sicurezza e quella dell'intera colonia, non posso lasciarvi uscire. Qui avete tutto quello che potreste desiderare, in cambio di ciò vi chiediamo solo di non lasciarci mai."
E lei che fa?
"Generale, queste condizioni sono inaccettabili. Ho dato la mia parola a questo cavaliere che l'avrei accompagnato fuori, e intendo mantenerla. Se voi continuerete ad impedirmelo, mi vedrò costretta ad abdicare"
"Niente da fare, vostra Maestà. Le regole della colonia non possono essere infrante, neanche dalla regina. Comandante, che la regina venga messa agli arresti nei suoi alloggi!"
In pochi istanti, un esercito di formiche-soldato aveva immobilizzato la principessa e la stava trascinando nelle stanze reali. il cavaliere aveva tentato di ribellarsi, ma anch'egli in un attimo era stato sopraffatto. Mentre alcuni soldati lo tenevano ben saldo, il generale gli si avvicinò e lo apostrofò:
"Voi siete un protetto della nostra regina, e per questa volta la vita vi sarà risparmiata. Ma andate, e non tornate mai più. In caso contrario, verrete accusato di alto tradimento, e condannato a morte. Portatelo via!"
Qualche strana sostanza venne liberata nell'aria e il cavaliere perse i sensi. Quando si risvegliò, si ritrovò all'esterno, in un bosco, senza alcun segno della vicinanza del formicaio.
NELLA PROSSIMA PUNTATA:
Oh mio dio
Spoiler!
Come il cavaliere liberò la principessa per la seconda volta e come lei riusci a ri-incasinare tutto.
Da capo.
In mezzo, il drago.
E non sia che la principessa cominci a preoccuparsi: "Oh, no, non venire, è troppo pericoloso, potresti farti male". Oppure "sono una principessa moderna e femminista, faccio da me". Ad ognuno il proprio ruolo: lei sbatta le palpebre ammiccante, lui squarci o diventi cibo per draghi.
Come volevasi dimostrare, al nostro cavaliere tocca la principessa iperattiva. Che non riesce a stare ferma ad aspettare che la vengano a salvare. Inizia a scavare una galleria per scappare. Ovviamente quando arriva il cavaliere, non la trova. Invece lei, nel suo penetrare prima la pietra delle mura e poi il terreno, si imbatte in qualunque stranezza. E visto che, oltre ad essere iperattiva, è anche facilmente distraibile, viene continuamente deviata dalla sua strada e si mette a seguire gli esseri più improbabili. Questo ovviamente non le impedisce di continuare a lamentarsi lungo la strada. Ed è l'unica nota positiva, visto che il cavaliere riesce ad inseguirla seguendo l'eco delle sue lagnanze. Il poveretto continua a ripetersi: "So principesse, che ce voi fa? Se era facile mica ci scrivevano sopra una favola".
Nel suo cammino, la principessa finisce in un luogo strano: la valle degli specchi captivi. Mentre l'attraversa gli specchi catturano la sua immagine e la imprigionano dentro di loro. La principessa, ora senza immagine, scappa impaurita. Quando arriva il principe, crede di averla finalmente raggiunta. Ma è solo un trucco degli specchi! Glielo fanno credere per tenerlo loro prigioniero. Sembra che tutto stia per finire male!
All'improvviso, la musica.
Un menestrello di nome Roberto Scalco, che passava lì vicino, stava cantando il suo più famoso successo: "Pitture di te". Fa così:
"ho guardato così a lungo queste pitture di te
che ho quasi creduto fossero vere
ho vissuto così a lungo con queste pitture di te
che ho quasi creduto fossero l'unica cosa potessi sentire"
Sono le parole magiche fanno risvegliare il cavaliere dal suo incantesimo! Subito sfodera la spada, rompe gli specchi e libera l'immagine della sua bella principessa. Di nuovo all'inseguimento, presto!
E poi e poi?
E poi la principessa viene catturata dall'esercito delle termiti. La legano e la portano nella loro enorme tana.
Se la mangiano?
No, non la mangiano! Al suo arrivo, la regina delle termiti la vede e a causa della grande bellezza della principessa, viene accecata dalla gelosia. Ordina che il giorno dopo, all'alba, venga giustiziata. La principessa è disperata, passa la notte in lacrime, temendo per la propria sorte. Ma allo scoccare della mezzanotte...
...un'esplosione! Grande caos nella tana delle termiti. si sentono voci che parlano di guerra!
Anche le guardie delle celle vengono richiamate in battaglia. La principessa tenta di scappare, ma era stata murata nella sua cella.
Guerra per cosa?
La guerra era scoppiata con le formiche della tana accanto. In uno scontro, occorso il giorno precedente, le termiti avevano ucciso la regina delle formiche. Ora le formiche vagavano come impazzite senza una guida. Erano finite nella tana delle termiti, ed erano ripresi gli scontri. La battaglia andò avanti per tutta la notte, fin quando, all'alba, un grido si alza sul campo di battaglia:
VITTORIA!
Le formiche avevano vinto. Tutti i prigionieri furono liberati e condotti nel formicaio, come eroi di guerra. Tra loro, c'era la nostra principessa. Alla fine dei festeggiamenti della vittoria, il sommo generale delle formiche si presentò alla principessa e le disse: "Principessa, come avrà capito, noi siamo rimasti orfani della nostra regina. In battaglia abbiamo avuto grandi perdite, ma anche la fortuna di trovare lei, arcinemica delle termiti, come noi. Le chiedo ufficialmente: Vuole diventare la nostra regina?".
la principessa si sentì onorata ed emozionata, ma ancora scossa per pericolo appena scampato. Ripensò a tutti coloro che aveva lasciato lontano è provò nostalgia. Ma tutte quelle antennine sull'attenti per lei la riempiono di orgoglio regale. E forse, a causa del suo nobile istinto, accettò. Ripresero i festeggiamenti, per la nuova incoronazione. Cibo e bevande a fiumi, doni da tutte le parti del mondo sotterraneo per la nuova regina. Ma ecco, nel pieno dei festeggiamenti, arrivare il cavaliere!
Finalmente! Ce l'ha fatta! si dice in cuor suo.
Riesce ad ottenere immediatamente un'udienza con la principessa-regina. Senza pensarci, le propone di andare via con lui, subito.
Ma lei non deve regnare?
"Scappa con me! Ti ho inseguita fin qui! Ho superato mille pericoli per te!"
La principessa è colma di riconoscenza per il cavaliere: in altre circonstanza non avrebbe esitato un attimo...
...ma ora...
"Ora ho un regno da custodire! Loro sono i miei sudditi, hanno bisogno di me! Ho accettato di regnarli e non mi tirerò indietro"
Il cavaliere non riesce a credere alle proprie orecchie! E' tutto un brutto sogno!
Guardando negli occhi la principessa, capì lei che faceva sul serio. Decise però di tentare un'ultima carta:
"Regina, sono fiero di essermi battuto per voi. Vogliate lasciare al mio cuore un'ultima speranza. Vi prego di accompagnarmi in superfice: lì mi ripeterete queste vostre parole. Se vi riuscirete, io me ne andrò per sempre e accetterò la vostra decisione."
La principessa accettò. Fecero per uscire dalla tana delle formiche, quando un plotone di formiche sbarrò loro la strada.
"Cosa significa?" chiese la principessa.
"Mi dispiace mia regina, ma abbiamo l'ordine di non farvi uscire dalla tana"
"Ma che insolenza! Io sono la vostra regina e sto accompagnando il mio ospite fuori dalla tana! vi ordino di lasciarci passare!"
"Perdonatemi, vostra altezza! Egli è libero di andare, ma a Voi non è concesso"
"COME VI PERMETTETE! ESIGO DI PARLARE IMMEDIATAMANTE CON IL GENERALE!"
Venne fatto chiamare il generale delle formiche. La principessa è su tutte le furie.
"Generale, vi sto chiedendo conto dei vostri ordini! A me, la vostra regina, viene proibito di uscire dalla mia tana! E' inaudito!"
"Mi spiace regina, ma per la vostra sicurezza e quella dell'intera colonia, non posso lasciarvi uscire. Qui avete tutto quello che potreste desiderare, in cambio di ciò vi chiediamo solo di non lasciarci mai."
E lei che fa?
"Generale, queste condizioni sono inaccettabili. Ho dato la mia parola a questo cavaliere che l'avrei accompagnato fuori, e intendo mantenerla. Se voi continuerete ad impedirmelo, mi vedrò costretta ad abdicare"
"Niente da fare, vostra Maestà. Le regole della colonia non possono essere infrante, neanche dalla regina. Comandante, che la regina venga messa agli arresti nei suoi alloggi!"
In pochi istanti, un esercito di formiche-soldato aveva immobilizzato la principessa e la stava trascinando nelle stanze reali. il cavaliere aveva tentato di ribellarsi, ma anch'egli in un attimo era stato sopraffatto. Mentre alcuni soldati lo tenevano ben saldo, il generale gli si avvicinò e lo apostrofò:
"Voi siete un protetto della nostra regina, e per questa volta la vita vi sarà risparmiata. Ma andate, e non tornate mai più. In caso contrario, verrete accusato di alto tradimento, e condannato a morte. Portatelo via!"
Qualche strana sostanza venne liberata nell'aria e il cavaliere perse i sensi. Quando si risvegliò, si ritrovò all'esterno, in un bosco, senza alcun segno della vicinanza del formicaio.
NELLA PROSSIMA PUNTATA:
Oh mio dio
Spoiler!
Come il cavaliere liberò la principessa per la seconda volta e come lei riusci a ri-incasinare tutto.
Da capo.
24 marzo 2008
Nove passi per altroché
Nell'abisso dell'anima ci nuotano i pesci trasparenti.
Se solo fosse possibile smontare superstizioni come fossero marchingegni.
Perchè trovo così difficile addormentarmi in presenza d'altri? Forse loro mi fanno paura.
Passa una sufficiente quantità di tempo in silenzio, evitando di parlare con alcuno, e alla fine anche la tua voce interna tacerà. A quel punto l'osservazione guadagnerà una nuova dimensione. Un dettaglio alla volta. Sfumerà la differenza tra azione ed oggetto. Preparati all'inevitabile sopravvento del significato.
C'è un continuo oscillare immobile tra 'lasciare perdere' e 'non lasciare perdere'.
Mi sono urlato: "Tu vuoi vedermi morto!". Poi sono stato in silenzio. Ignorando cosa rispondermi.
I pensieri neurodegenerativi sono idee che mangiano altre idee. Dunque il linguaggio è un morbo: che troppo potente, uccide chi l'ha in sè; che troppo debole, smarrisce nell'abituale.
Esercizio da 7 punti: Si dimostri l'inesistenza di X in presenza della congruenza tra una realtà fattuale in cui X esiste ed una realtà ipotetica in cui X non esiste. Esercizio supplementare da 3 punti: Non avere compassione di X.
Se solo fosse possibile smontare superstizioni come fossero marchingegni.
Perchè trovo così difficile addormentarmi in presenza d'altri? Forse loro mi fanno paura.
Passa una sufficiente quantità di tempo in silenzio, evitando di parlare con alcuno, e alla fine anche la tua voce interna tacerà. A quel punto l'osservazione guadagnerà una nuova dimensione. Un dettaglio alla volta. Sfumerà la differenza tra azione ed oggetto. Preparati all'inevitabile sopravvento del significato.
C'è un continuo oscillare immobile tra 'lasciare perdere' e 'non lasciare perdere'.
Mi sono urlato: "Tu vuoi vedermi morto!". Poi sono stato in silenzio. Ignorando cosa rispondermi.
I pensieri neurodegenerativi sono idee che mangiano altre idee. Dunque il linguaggio è un morbo: che troppo potente, uccide chi l'ha in sè; che troppo debole, smarrisce nell'abituale.
Esercizio da 7 punti: Si dimostri l'inesistenza di X in presenza della congruenza tra una realtà fattuale in cui X esiste ed una realtà ipotetica in cui X non esiste. Esercizio supplementare da 3 punti: Non avere compassione di X.
07 marzo 2008
Vado in discoteca e neanche uno scaffale
Aspirazione
Nil è un essere così ripugnante da non riuscire a suscitare neanche l'attrazione della forza di gravità. Nil, rimasto schiacciato nella differenza tra il proprio peso e quello degli eventi, si ritrova ora servitore di una immobilità coatta. La esaudisce gattonando, silenziosamente. La stessa immobilità che gli permette di spostarsi solo verticalmente, su e giu, più e più volte. Perchè ascese e discese non si ergono più al grado di movimenti. Nil, per cui tutto è un gioco di segnalibri e numeri di pagina non sequenziali. Per immobilità, un esercizio di morte. Nil è ogni giorno più invisibile. Nil è ogni giorno più sopracoperta, più ricamo sulla fodera cuscino, più macchia e ombra di calore sulla parete. Nil è tanto più invisibile, quanto più lontano dal profumo di certe chiome. Nil è tanto più cieco, quanto più tiene ferme le mani. Le mani, ferme, incrociate sul petto; e insieme lungo i fianchi; e insieme testimoni della perdita del tono muscolare. Le mani, ferme, violentate dai ricordi delle musiche fatte di tensioni e piacere, originate dalla sequenza e dalla disposizione di quegli stessi toni, su altri corpi.
Compressione
Nil viene accompagnato nel luogo in cui, da oggi in poi, dovrà svolgere il proprio compito. Nil viene lasciato solo, affinchè possa svolgere il proprio compito. Errore numero uno. Descrizione: Una stanza anonima della sua nudità, piatta davanti, sulla parete coperta di strumenti di misurazione e pannelli di controllo, piatta dietro, nel muro su cui trova spazio l'unica finestra, dai vetri incompleti. A sbeffeggiare i motivi curviformi che ornano il pavimento, ci pensano le geometriche intersezioni di nero sporco negli spazi tra le piastre, che quello stesso pavimento ricoprono. E una sediaccia di legno, indecisa, incerta e inospitale. Nil ne saggia la seduta, passandoci sopra la punta del dito indice. Sul polpastrello si raccoglie una discreta quantità di polvere, mentre sul legno si allunga una striscia di discreta mancanza di polvere. Nil pensa a quanto sia stato facile, con un gesto, fare ciò per cui non bastano due o tre vite: lasciare un segno. Allora Nil smette di pensare e sgombra il proprio posto con un colpo di mano. La polvere si lancia elettrica nell'aria, e plana in tremore. Precipita eccitata nell'idea di poter finire dentro di lui, presto o tardi, respirata.
Espansione
Quando Nil apre la cassetta, tutta la posta finisce sul pavimento. Si china per fare un cumulo dell'ultimo mese di pubblicità. Nel campo visivo di Nil compare un paio di scarpe da ragazza, presumibilmente attaccate ad una vera ragazza. Le punte delle scarpe blu leggermente piegate verso l'interno. I movimenti di Nil accelerano e ne perde il controllo, sente il sangue salirgli alla faccia, borbotta qualche parola di scuse, accenni di giustificazione, sguardo attaccato al pavimento. Risale svelto, è davanti a lei. L'imbarazzo non trova più spazio. Nil riconosce la Ragazza dagli Occhi Troppo Distanti. La guarda, la fissa, eliminando ogni espressione dal proprio viso, non curandosi del tempo che viene divorato. La Ragazza dagli Occhi Troppo Distanti si muove come non volesse sfiorare i fili della sospensione di Nil.
- Mi stai fissando come se avessi visto qualcosa di molto bello o di molto brutto.
Le idee di Nil scivolano intorpidite una sull'altra.
- So di averti già vista.
Si fa di lato. La Ragazza dagli Occhi Troppo Distanti si avvicina ad una cassetta della posta e ne estrae una sola lettera bianca, senza scritte, indecifrabile.
- E dove?
- In un sogno, eri in uno dei miei sogni.
- Una frase molto originale da dire ad una ragazza, non trovi?
- Beh non eri proprio tu. O almeno, non lo so. Comunque questa ragazza aveva un particolare, non l'ho dimenticato. E lo hai anche tu. Tu sei la ragazza del mio sogno.
- Che particolare?
- Non te lo dirò mai.
- Un'altra frase da non usare con una ragazza.
- Eri tu, vero?
- I tuoi sogni sono una tua responsabilità. Se ero lì, vuol dire che mi ci hai messo tu. Non posso dirti altro.
Ora la Ragazza dagli Occhi Troppo Distanti potrebbe andarsene. Nil potrebbe offendersi, o fingere. Entrambi umili ed avidi di silenzio, si instaurano ad impedimento di ulteriori giri di giostra gratuiti. Nil ha il presagio che, costringendo nuovamente un incontro in uno scambio non banale, ridurrebbe il proprio spirito demonio in posizione fetale, senz'aria. La Ragazza dagli Occhi Troppo Distanti non deve sapere. Il patto è taciuto, il patto è tacere. Dopo un istante di posa, lei già corre lungo le scale. Nil si convincerà di averle sentito dire, svanendo:
- Non farà mai abbastanza freddo. Del piccolo gelo, che non fa dormire, ne vorresti ancora. Ma tutto infine si riduce a sopore.
Scarico
Comincia così l'attività di Nil. Osserva ogni monitor, ogni spia, ogni qualcosimetro. Incerto e titubante, gira manopole, attiva interruttori, ruota potenziometri, aziona leve. Niente genera senso o sembra discenderne. Nil crede di aver solo bisogno di tempo. Errore numero due. Si fa strada in Nil l'immotivata certezza, come una religione, che con l'abitudine si riveleranno gli effetti, le conseguenze e anche tutte le cause. Nil si rende così colpevole dell'errore di ogni cielo: ardire a intendere la natura carnale di un terremoto contemplando le foglie cadere.
Nil è un essere così ripugnante da non riuscire a suscitare neanche l'attrazione della forza di gravità. Nil, rimasto schiacciato nella differenza tra il proprio peso e quello degli eventi, si ritrova ora servitore di una immobilità coatta. La esaudisce gattonando, silenziosamente. La stessa immobilità che gli permette di spostarsi solo verticalmente, su e giu, più e più volte. Perchè ascese e discese non si ergono più al grado di movimenti. Nil, per cui tutto è un gioco di segnalibri e numeri di pagina non sequenziali. Per immobilità, un esercizio di morte. Nil è ogni giorno più invisibile. Nil è ogni giorno più sopracoperta, più ricamo sulla fodera cuscino, più macchia e ombra di calore sulla parete. Nil è tanto più invisibile, quanto più lontano dal profumo di certe chiome. Nil è tanto più cieco, quanto più tiene ferme le mani. Le mani, ferme, incrociate sul petto; e insieme lungo i fianchi; e insieme testimoni della perdita del tono muscolare. Le mani, ferme, violentate dai ricordi delle musiche fatte di tensioni e piacere, originate dalla sequenza e dalla disposizione di quegli stessi toni, su altri corpi.
Compressione
Nil viene accompagnato nel luogo in cui, da oggi in poi, dovrà svolgere il proprio compito. Nil viene lasciato solo, affinchè possa svolgere il proprio compito. Errore numero uno. Descrizione: Una stanza anonima della sua nudità, piatta davanti, sulla parete coperta di strumenti di misurazione e pannelli di controllo, piatta dietro, nel muro su cui trova spazio l'unica finestra, dai vetri incompleti. A sbeffeggiare i motivi curviformi che ornano il pavimento, ci pensano le geometriche intersezioni di nero sporco negli spazi tra le piastre, che quello stesso pavimento ricoprono. E una sediaccia di legno, indecisa, incerta e inospitale. Nil ne saggia la seduta, passandoci sopra la punta del dito indice. Sul polpastrello si raccoglie una discreta quantità di polvere, mentre sul legno si allunga una striscia di discreta mancanza di polvere. Nil pensa a quanto sia stato facile, con un gesto, fare ciò per cui non bastano due o tre vite: lasciare un segno. Allora Nil smette di pensare e sgombra il proprio posto con un colpo di mano. La polvere si lancia elettrica nell'aria, e plana in tremore. Precipita eccitata nell'idea di poter finire dentro di lui, presto o tardi, respirata.
Espansione
Quando Nil apre la cassetta, tutta la posta finisce sul pavimento. Si china per fare un cumulo dell'ultimo mese di pubblicità. Nel campo visivo di Nil compare un paio di scarpe da ragazza, presumibilmente attaccate ad una vera ragazza. Le punte delle scarpe blu leggermente piegate verso l'interno. I movimenti di Nil accelerano e ne perde il controllo, sente il sangue salirgli alla faccia, borbotta qualche parola di scuse, accenni di giustificazione, sguardo attaccato al pavimento. Risale svelto, è davanti a lei. L'imbarazzo non trova più spazio. Nil riconosce la Ragazza dagli Occhi Troppo Distanti. La guarda, la fissa, eliminando ogni espressione dal proprio viso, non curandosi del tempo che viene divorato. La Ragazza dagli Occhi Troppo Distanti si muove come non volesse sfiorare i fili della sospensione di Nil.
- Mi stai fissando come se avessi visto qualcosa di molto bello o di molto brutto.
Le idee di Nil scivolano intorpidite una sull'altra.
- So di averti già vista.
Si fa di lato. La Ragazza dagli Occhi Troppo Distanti si avvicina ad una cassetta della posta e ne estrae una sola lettera bianca, senza scritte, indecifrabile.
- E dove?
- In un sogno, eri in uno dei miei sogni.
- Una frase molto originale da dire ad una ragazza, non trovi?
- Beh non eri proprio tu. O almeno, non lo so. Comunque questa ragazza aveva un particolare, non l'ho dimenticato. E lo hai anche tu. Tu sei la ragazza del mio sogno.
- Che particolare?
- Non te lo dirò mai.
- Un'altra frase da non usare con una ragazza.
- Eri tu, vero?
- I tuoi sogni sono una tua responsabilità. Se ero lì, vuol dire che mi ci hai messo tu. Non posso dirti altro.
Ora la Ragazza dagli Occhi Troppo Distanti potrebbe andarsene. Nil potrebbe offendersi, o fingere. Entrambi umili ed avidi di silenzio, si instaurano ad impedimento di ulteriori giri di giostra gratuiti. Nil ha il presagio che, costringendo nuovamente un incontro in uno scambio non banale, ridurrebbe il proprio spirito demonio in posizione fetale, senz'aria. La Ragazza dagli Occhi Troppo Distanti non deve sapere. Il patto è taciuto, il patto è tacere. Dopo un istante di posa, lei già corre lungo le scale. Nil si convincerà di averle sentito dire, svanendo:
- Non farà mai abbastanza freddo. Del piccolo gelo, che non fa dormire, ne vorresti ancora. Ma tutto infine si riduce a sopore.
Scarico
Comincia così l'attività di Nil. Osserva ogni monitor, ogni spia, ogni qualcosimetro. Incerto e titubante, gira manopole, attiva interruttori, ruota potenziometri, aziona leve. Niente genera senso o sembra discenderne. Nil crede di aver solo bisogno di tempo. Errore numero due. Si fa strada in Nil l'immotivata certezza, come una religione, che con l'abitudine si riveleranno gli effetti, le conseguenze e anche tutte le cause. Nil si rende così colpevole dell'errore di ogni cielo: ardire a intendere la natura carnale di un terremoto contemplando le foglie cadere.
04 febbraio 2008
Il primo è dato, il secondo è dato, il terzo NON SI SA (quindi sei il massimo misosofo vivente)
Non è ribellione, è solo vento.
Nel sogno c'era un manichino. Un manichino da atelier, un busto di stoffa grigia, eretto su di un piedistallo nero. Ripensare al sogno, ripensare anche al manichino. Interrogativi sulla natura del manichino. Perchè nei sogni, le cose non hanno bisogno di essere come sono realmente. Se quindi un manichino in un sogno appare come un manichino reale, c'è una ratio. La stessa ragione per cui, nella realtà, un manichino assomiglia ad un manichino e non a qualsiasi altra cosa. Allora vuol dire che la parte più difficile di un corpo sono quelle due esse, fianco-vita-spalla, che si guardano negli occhi e non si stancano mai.
Nel sogno c'era anche una profonda attesa. Sognare di aspettare un autobus per ore. Nessuno che metta in guardia sul cattivo uso del tempo passato sognando, quando non diventa mai meglio di così.
Giovanotto diletto, probabilmente tu intendevi "io lo che sono solo anche quando non sono solo".
Prende alla testa come la nausea prende alla gola. Ti irridisce la spina dorsale, e hai solo voglia di buttare tutto fuori. Scivola, mentre risale la corrente, e ti strizza le vene delle braccia e delle gambe. Poi irriga il cuore e gli fa mancare una battuta. Puoi solo sederti, incrociare le gambe e aspettare che finisca. Stavolta mi sono portato una mela, non ho mai provato a mangiare durante gli effetti della Soluzione. Defloro la buccia con un morso e mi sento in colpa come per un'accusa di stupro. I denti si mettono a ballare senza unisono, ognuno secondo una ignota logica ortodontica. Dalle intercavità tra radice e gengiva scaturisce ciò che non riesco ad identificare se non come scintille, o spruzzi di sangue caldo. Adesso la bocca è un autolavaggio per muoni dalla carrozzeria cromata e gli interni in budello di renna. Adesso la bocca è un carro bestiame lanciato a tutta velocità lungo i sentieri dell'adolescenza in comodato d'uso. Sento come il rumore di un battito d'ali di un esemplare maschio adulto della famiglia delle eliconidi, a chilometri di distanza; qualcuno deve essersi seduto davanti a me, in mezzo alla strada. Forse ho di fronte me stesso di plastica. Provo ad aprire gli occhi, ma c'è solo una punta bianca flottante nel nero, un modellino plastico della nostra galassia in scala 1 : 62x10^22. Apro la bocca, così che possa vedere. Vedere il nero di un principio di coma proteinico, vedere come la mia saliva rasenti la brodo-primordialità di una linea temporale alternativa, vedere come i dati quinquennali di integrazione sociale siano graficabili in tre dimensioni e come il grafico risultante abbia la forma di una pantofola con tacco a spillo indossata in estate. Ora le esplosioni controllate di rumore marrone indicano la conclusione della mia ventisettesima esperienza della Soluzione. Posso forzare di nuovo inspirazione ed espirazione. Prima di scomparirmi davanti agli occhi, faccio in tempo a dirmi: "Ammetto di essere un cattivo guidatore". Mi tiro su e mi ripulisco dai resti di polpa di mela e dalle goccie di triidruro di azoto. Le rime cominiciano a sintetizzarsi nella mia testa come ho visto fare in tv ai filamenti di RNA. Di nuovo, sopravvivo all'ispirazione.
Nel sogno c'era un manichino. Un manichino da atelier, un busto di stoffa grigia, eretto su di un piedistallo nero. Ripensare al sogno, ripensare anche al manichino. Interrogativi sulla natura del manichino. Perchè nei sogni, le cose non hanno bisogno di essere come sono realmente. Se quindi un manichino in un sogno appare come un manichino reale, c'è una ratio. La stessa ragione per cui, nella realtà, un manichino assomiglia ad un manichino e non a qualsiasi altra cosa. Allora vuol dire che la parte più difficile di un corpo sono quelle due esse, fianco-vita-spalla, che si guardano negli occhi e non si stancano mai.
Nel sogno c'era anche una profonda attesa. Sognare di aspettare un autobus per ore. Nessuno che metta in guardia sul cattivo uso del tempo passato sognando, quando non diventa mai meglio di così.
Giovanotto diletto, probabilmente tu intendevi "io lo che sono solo anche quando non sono solo".
Prende alla testa come la nausea prende alla gola. Ti irridisce la spina dorsale, e hai solo voglia di buttare tutto fuori. Scivola, mentre risale la corrente, e ti strizza le vene delle braccia e delle gambe. Poi irriga il cuore e gli fa mancare una battuta. Puoi solo sederti, incrociare le gambe e aspettare che finisca. Stavolta mi sono portato una mela, non ho mai provato a mangiare durante gli effetti della Soluzione. Defloro la buccia con un morso e mi sento in colpa come per un'accusa di stupro. I denti si mettono a ballare senza unisono, ognuno secondo una ignota logica ortodontica. Dalle intercavità tra radice e gengiva scaturisce ciò che non riesco ad identificare se non come scintille, o spruzzi di sangue caldo. Adesso la bocca è un autolavaggio per muoni dalla carrozzeria cromata e gli interni in budello di renna. Adesso la bocca è un carro bestiame lanciato a tutta velocità lungo i sentieri dell'adolescenza in comodato d'uso. Sento come il rumore di un battito d'ali di un esemplare maschio adulto della famiglia delle eliconidi, a chilometri di distanza; qualcuno deve essersi seduto davanti a me, in mezzo alla strada. Forse ho di fronte me stesso di plastica. Provo ad aprire gli occhi, ma c'è solo una punta bianca flottante nel nero, un modellino plastico della nostra galassia in scala 1 : 62x10^22. Apro la bocca, così che possa vedere. Vedere il nero di un principio di coma proteinico, vedere come la mia saliva rasenti la brodo-primordialità di una linea temporale alternativa, vedere come i dati quinquennali di integrazione sociale siano graficabili in tre dimensioni e come il grafico risultante abbia la forma di una pantofola con tacco a spillo indossata in estate. Ora le esplosioni controllate di rumore marrone indicano la conclusione della mia ventisettesima esperienza della Soluzione. Posso forzare di nuovo inspirazione ed espirazione. Prima di scomparirmi davanti agli occhi, faccio in tempo a dirmi: "Ammetto di essere un cattivo guidatore". Mi tiro su e mi ripulisco dai resti di polpa di mela e dalle goccie di triidruro di azoto. Le rime cominiciano a sintetizzarsi nella mia testa come ho visto fare in tv ai filamenti di RNA. Di nuovo, sopravvivo all'ispirazione.
20 gennaio 2008
Un cespuglio e la scienza delle cose
Brachistocronache : I
-Tutto quello che c'è da sapere su di una persona, lo si ottiene chiedendogli se crede in Dio e se possiede un paio di occhiali da sole. E osservando poi la faccia che fa per dire "Perché?"
Lo dice Nil, appoggiato contro la finestra chiusa. A chi lo dice, se è solo nella stanza? Alla gente che si smarca sui marciapiedi, irrigidita dal freddo e noncurante. Alla rosa di respiro che si spande e contrae sopra il vetro, davanti al suo naso. Nil non smette un momento di parlare, quando nessuno lo ascolta. Nil, quando nessuno lo guarda, smette di respirare. Ma solo per pochi attimi. Crede di avere un sacco di cose da dire, ma non alle persone. Nil e il suo naso, quanti aneddoti. Crede di avere intorno un sacco di persone, ma non interessate. Crede che ci sia un curiosa distribuzione di persone interessanti, ma non per lui. Allora si inventa che quella macchia di vapor acqueo possegga una vita propria; un anemone del cielo; dimenticando la giornata di freddo, i propri polmoni e nozioni base di termodinamica. Un test di Roscharch capovolto: "Riesce a non proiettare la sua fantasia su queste discutibili simmetrie, signore?"
Qualcuno apre la porta, accende la luce nella stanza. Il mondo fuori scompare, si affaccia alla finestra una copia speculare dell'interno, compreso un sè capovolto che lo guarda con occhi strani, instupiditi. -Vuoi un poco di the? -Sì, grazie.
La luce spenta. La porta chiusa. La voragine.
-Sei sposato? -No -Allora perchè indossi una fede? -Non è mia -E a chi appartiene? -L'ho rubata ad un cadavere, o a un uomo sposato, o a tutte e due, o a un'altra cosa.
Un uomo e i suoi occhi bianchi, ha un martello. Colpisce un vaso. Il vaso si frantuma. Un uomo e i suoi occhi rossi, si volta. -Mi pento di quello che ho fatto. Un uomo e i suoi occhi neri.
Ho incollato la parola "fissaggio" al pavimento di legno.
"TUMP" è il suono che fece la testa cadendo (e non rotolò neanche). I capelli si riempirono di polvere. "..." è il suono che fece la testa perdendosi (e non brillò neanche).
Anche tu, dopo due giorni ininterrotti di leccate sulla schiena, cominceresti a sudare allucinogeni.
Ti sto ascoltando. Non ti sto ascoltando. Ti sto ascoltando.Ti sto ascoltando. Non ti sto ascoltando. Ti sto ascoltando. Non ti sto ascoltando. Ti sto ascoltando. Non ti sto ascoltando.
Pensa. Pensa al significato delle consonanti. Alle loro presenze. Ma io le ho fatte cadere e si sono sparse e rotte. Mi aveva detto -Le tolgo dai miei occhi e le do a te. Io mi ero detto -Fidati.
Molte siluette di uomini e donne che crescono e decrescono, pulsano alla vita, si ammalano ma non guariscono. Piene di eccitazione. Piene di linee. Linee e linee per srotolare piani. Inutili come gioielleria per pianeti o il pericolo di caduta massi in salita.
Il mio voto non vale il prezzo che gli hai dato, e che hai insistito di voler pagare. Resta sempre molto bello, però. Avessi avuto il coraggio, avrei chiesto di più.
-Buongiorno, vorrei una sedia comoda per me e la mia coda. -Mi spiace, ma questa è una macelleria.
-Tutto quello che c'è da sapere su di una persona, lo si ottiene chiedendogli se crede in Dio e se possiede un paio di occhiali da sole. E osservando poi la faccia che fa per dire "Perché?"
Lo dice Nil, appoggiato contro la finestra chiusa. A chi lo dice, se è solo nella stanza? Alla gente che si smarca sui marciapiedi, irrigidita dal freddo e noncurante. Alla rosa di respiro che si spande e contrae sopra il vetro, davanti al suo naso. Nil non smette un momento di parlare, quando nessuno lo ascolta. Nil, quando nessuno lo guarda, smette di respirare. Ma solo per pochi attimi. Crede di avere un sacco di cose da dire, ma non alle persone. Nil e il suo naso, quanti aneddoti. Crede di avere intorno un sacco di persone, ma non interessate. Crede che ci sia un curiosa distribuzione di persone interessanti, ma non per lui. Allora si inventa che quella macchia di vapor acqueo possegga una vita propria; un anemone del cielo; dimenticando la giornata di freddo, i propri polmoni e nozioni base di termodinamica. Un test di Roscharch capovolto: "Riesce a non proiettare la sua fantasia su queste discutibili simmetrie, signore?"
Qualcuno apre la porta, accende la luce nella stanza. Il mondo fuori scompare, si affaccia alla finestra una copia speculare dell'interno, compreso un sè capovolto che lo guarda con occhi strani, instupiditi. -Vuoi un poco di the? -Sì, grazie.
La luce spenta. La porta chiusa. La voragine.
-Sei sposato? -No -Allora perchè indossi una fede? -Non è mia -E a chi appartiene? -L'ho rubata ad un cadavere, o a un uomo sposato, o a tutte e due, o a un'altra cosa.
Un uomo e i suoi occhi bianchi, ha un martello. Colpisce un vaso. Il vaso si frantuma. Un uomo e i suoi occhi rossi, si volta. -Mi pento di quello che ho fatto. Un uomo e i suoi occhi neri.
Ho incollato la parola "fissaggio" al pavimento di legno.
"TUMP" è il suono che fece la testa cadendo (e non rotolò neanche). I capelli si riempirono di polvere. "..." è il suono che fece la testa perdendosi (e non brillò neanche).
Anche tu, dopo due giorni ininterrotti di leccate sulla schiena, cominceresti a sudare allucinogeni.
Ti sto ascoltando. Non ti sto ascoltando. Ti sto ascoltando.
Pensa. Pensa al significato delle consonanti. Alle loro presenze. Ma io le ho fatte cadere e si sono sparse e rotte. Mi aveva detto -Le tolgo dai miei occhi e le do a te. Io mi ero detto -Fidati.
Molte siluette di uomini e donne che crescono e decrescono, pulsano alla vita, si ammalano ma non guariscono. Piene di eccitazione. Piene di linee. Linee e linee per srotolare piani. Inutili come gioielleria per pianeti o il pericolo di caduta massi in salita.
Il mio voto non vale il prezzo che gli hai dato, e che hai insistito di voler pagare. Resta sempre molto bello, però. Avessi avuto il coraggio, avrei chiesto di più.
-Buongiorno, vorrei una sedia comoda per me e la mia coda. -Mi spiace, ma questa è una macelleria.
10 gennaio 2008
Caosmai
L'aria sta appesa e sfilacciata.
Il freddo è un gioco e il vento è la mossa dell'aria.
Come ogni decisione, non ha propriamente bisogno di sé.
Installata all'entrata del luogo che io sono, c'è questa porta girevole.
Tu, che ti ci diverti, giri, giri, giri.
Mai completamente fuori, mai veramente dentro.
E la tua seta è come pelle.
E il tuo monumento alla concupiscenza, un corpo.
La solitudine è ciò che hai solo tu, più degli altri.
La solitudine è ciò che parla di te, quando nessuno ascolta.
Il freddo è un gioco e il vento è la mossa dell'aria.
Come ogni decisione, non ha propriamente bisogno di sé.
Installata all'entrata del luogo che io sono, c'è questa porta girevole.
Tu, che ti ci diverti, giri, giri, giri.
Mai completamente fuori, mai veramente dentro.
E la tua seta è come pelle.
E il tuo monumento alla concupiscenza, un corpo.
La solitudine è ciò che hai solo tu, più degli altri.
La solitudine è ciò che parla di te, quando nessuno ascolta.
31 dicembre 2007
Lei, che sa a cosa dare fuoco
Che così facilmente sfumano e rabbrividiscono, doverci soffiare sopra, mandare via la polvere, che altri cento occhi famelici non bastano a capirne il colore, l'attesa, fino a dove si può arrivare a volerli discendere come un viaggio al centro della terra. La terra che qui sei scoperta e nuda, qui sei una pietra fredda, qui un ventre terrorizzato, futilmente cannibale, più scuro, arrendevole, senza sonno. Tanta vergogna per un'isteria che è il dialetto che cerchi di nascondere tra le labbra. Il premio per i più penetranti panneggi, i più accessi affondi, i più dipinti sipari a quei due ancora, lenti, rumorosi, bambini cattivi. Non sto riflettendo, sto scoprendo il mio narcisismo difettato. Loro due sono una battaglia in mare, sono allucinazioni e tremori, sono neurotica e stagnante gioia. Io metto in moto questa lingua molle e coperta di ruggine e mi nascondo dietro di lei, davanti a loro: l'esperienza è solo un costume, l'esperienza si fa solo con travestimento addosso. Certa solitudine è bianca come l'avorio. Si può mettere in dubbio qualunque cosa: La fame e l'amore, la trasparenza del tempo, le immagini di sensi più strani, il silenzio durante la formulazione di un urlo, incubazione. Ricordare è solo l'orgasmo, perchè farlo di corsa? Da quali sogni un ospite cerca riparo, incapace di fermarsi? Io mi metto sopra di lei come una preda che sorprende il suo predatore e le faccio uscire respiri in riccioli, poi lei scalcia via il tempo con una risata. Mi assalgono il profumo e la fatica dell'acqua, l'ipnosi di muscoli neri e luccicanti delusioni confuse nel panorama dei sogni.
Quanto immeritati, aperti per me, quegli occhi.
Quanto immeritati, aperti per me, quegli occhi.
29 dicembre 2007
Tutto questo contro k
Non si gioca col cibo eppure fare a palle di neve è permesso.
Si conclude un anno.
Meno male che questo era l'ultimo.
Di qualcosa che il mare si porta via, il ritratto non si può fare con la sabbia.
chi è thefragile?
sul retro di lato molto distante è un posto dove mi nascondo dove mi trattengo ho provato a dire ho provato a chiedere avevo bisogno di tutto solo per conto mio dov'eri? come ho potuto solo pensare è divertente come tutto quello che promise non cambierà è diverso adesso proprio come te diresti sempre lo supereremo allora la mia testa si staccò e tu dov'eri? come ho potuto mai pensare è divertente come tutto quello che promettesti non cambierà mai è diverso adesso come hai detto tu ed io superarlo non proprio staccarsi dove diavolo eri?
Finora contro la mia gioia mi sono difeso unicamente con il divertimento intellettuale. Nulla del mio essere è cambiato. Ai miei segreti, posso parlare: Grande Cane, idolo d'oro, permettimi di dare un morso al Sacro Osso! Tremende le parole di un mio figlio: "Tutto quello che hai combinato, lo devi alla tua mancanza di denaro". Non credeva che mi sarei dato al vizio e alla bella vita. Non con tutta la mia stoltezza, la mia gioia, la mia indigenza. Prevedibile coincidenza: avevo deciso di tacere e si presentò una donna. Veri giorni di festa sono stati per me quelli della malattia.
Ma non si tratta di questo. Il mio avvenire si fa sempre più facile per le mie difficoltà economiche. Se non avessi l'impaccio di questa incapacità di piangere. Ma ora è facile. Da poco mi chiedo se sia possibile fermarsi. E poiché finora ho sempre operato cercando, ricordando, spesso ho pensato che non fosse mio dovere tentare di difendere me stesso. Se l'avessi fatto, non avrei mai più potuto rimproverarmelo. Ogni giorno maledico il Grande Cane di avermi concesso tutto, di avermi privato di tutto. Io lo prego ogni giorno di dimenticarsi di me. Egli non sa nulla.
Si conclude un anno.
Meno male che questo era l'ultimo.
Di qualcosa che il mare si porta via, il ritratto non si può fare con la sabbia.
chi è thefragile?
sul retro di lato molto distante è un posto dove mi nascondo dove mi trattengo ho provato a dire ho provato a chiedere avevo bisogno di tutto solo per conto mio dov'eri? come ho potuto solo pensare è divertente come tutto quello che promise non cambierà è diverso adesso proprio come te diresti sempre lo supereremo allora la mia testa si staccò e tu dov'eri? come ho potuto mai pensare è divertente come tutto quello che promettesti non cambierà mai è diverso adesso come hai detto tu ed io superarlo non proprio staccarsi dove diavolo eri?
Finora contro la mia gioia mi sono difeso unicamente con il divertimento intellettuale. Nulla del mio essere è cambiato. Ai miei segreti, posso parlare: Grande Cane, idolo d'oro, permettimi di dare un morso al Sacro Osso! Tremende le parole di un mio figlio: "Tutto quello che hai combinato, lo devi alla tua mancanza di denaro". Non credeva che mi sarei dato al vizio e alla bella vita. Non con tutta la mia stoltezza, la mia gioia, la mia indigenza. Prevedibile coincidenza: avevo deciso di tacere e si presentò una donna. Veri giorni di festa sono stati per me quelli della malattia.
Ma non si tratta di questo. Il mio avvenire si fa sempre più facile per le mie difficoltà economiche. Se non avessi l'impaccio di questa incapacità di piangere. Ma ora è facile. Da poco mi chiedo se sia possibile fermarsi. E poiché finora ho sempre operato cercando, ricordando, spesso ho pensato che non fosse mio dovere tentare di difendere me stesso. Se l'avessi fatto, non avrei mai più potuto rimproverarmelo. Ogni giorno maledico il Grande Cane di avermi concesso tutto, di avermi privato di tutto. Io lo prego ogni giorno di dimenticarsi di me. Egli non sa nulla.
15 dicembre 2007
Davanti a te, m'inquino.
Invece di fare il proprio dovere, si pensa ad una riforma del calendario. Che poi, perchè 12 mesi? 365 non è neanche divisibile per 12. E infatti ogni mese finisce al giorno che gli pare. Uno a 30, un altro a 31, quell'altro che vuole fare il furbo a 28. Facciamo invece le cose per bene. Io propongo: 13 mesi da 28 giorni, l'ultimo dei quali da 29 (30 per gli anni bisestili). Più chiaro, più semplice. Oppure: ancora 13 mesi, 6 da 27 giorni e 7 da 29, intervallati. Più simmetrico, meno meccanico, 365 giorni precisi; per gli anni bisestili potremmo allungare a 28 giorni il mese di mezzo, che un giorno più d'estate non dispiace a nessuno. Poi, già che ci siamo, possiamo allineare l'inizio dell'anno con equinozi o solstizi, così che il cominciare, l'arrivare a metà e il finire di un anno, corrispondano ad un semplice evento astronomico.
Mi alzo, vado in bagno, mi guardo allo specchio. Cristo. Imponi ogni giorno questa faccia alle persone cui capiti davanti. Senso di colpa. Esco di casa, scendo in strada, mi incammino. McDonald. Ordino due panini. Non mi fissare, commessa carina. La commessa ha un viso grazioso, la bellezza tratta da una canzone di un gruppo sconosciuto. Peccato che lavorando in una multinazionale tu debba perdere tutto il tuo credito alternativo, come se quel gruppo avesse firmato per una Major. Lo so, sono i miei capelli, sono spettinati. E nemmeno di quello spettinato-ma-bello che sta bene alle persone belle-ma-spettinate; sono solo spettinati. Mi metto a posto domani. Gente seduta ai tavoli, un ragazzo solo, una ragazza sola. Oddio, dovresti mettervi a mangiare insieme, è così evidente. Gli unici due a mangiare da soli, accidenti, se non volete farlo per sentimento almeno fatelo per ossessione: completate il quadro, così me ne posso andare. Di nuovo in strada, c'è più vento di quando sono entrato, lo stato dei capelli peggiora, ormai perso ogni pudore mangio dalla busta di cartone come un barbone. Fermo al semaforo aspettando il verde, osservo loro due sul motorino: lei cerca di mettere il piede sulla pedana sotto il manubrio, lui si scherma e la respinge delicatamente, ma senza tregua, lei ci riprova. Vanno avanti per un paio di minuti. Non posso vederli in faccia, a causa dei caschi, ma mi immagino stiano sorridendo o qualcosa del genere. Rituali strani per animali strani. Mi viene in mente lei, noi due che parliamo. Cerchiamo di spiegarci come si legge il mondo. Tu alla ricerca di tanti piccoli indizi, da collegare, annotare, annodare. Io disperato per la mancanza di un grande unico schema che rifletta ogni cosa. Non ci sono termini buoni per parlare di cose come queste: tiriamo fuori parole come "sincronia", "armonia", "simmetria", "amore che tiene legato ciò che è lontano, senza una logica". Ma non stiamo parlando di noi. Lei, insieme a me, a volte rimane un po' sola. Come se per pensare ad altre storie, finisca per pensare a me. Un certo strabismo nei pensieri.
Succede che il silenzio finisca per prendere il mio posto.
Succede che il silenzio diventi me.
Le facce, e il freddo sulla mia, mi distraggono. Mi sembra di pescare idee come da una di quelle macchine in cui infili la monetina e guidi una mano meccanica perchè raccolga il tuo premio. Anche se ti riesce di acchiappare qualcosa, ricade nel mucchio prima che tu possa farla tua. Tanto più si asseconda la mania di compartimentare la realtà, tanto più ogni rapporto o legame apparirà come una contaminazione, qualcosa di irrazionale nel senso etimologico del termine, ovvero: fuori dalla divisione. Passo di fronte ad una libreria. Mi vengono in mente titoli di libri surreali: La possibilità di un'isolitudine, Alla ricerca del tempo mai avuto. Foto in negativo a punte di matita. Chissà se qualcuno ha già pensato di farle, la grafite apparirebbe bianca, straniante. Non ho visto la foto, ma già mi piace l'effetto che fa. Ritorno a casa. Nessun post-it sulla porta della mia camera, nessun messaggio lasciato sulla lavagnetta sopra il frigorifero. La cosa migliore che può capitare ad una porta in cui nessuno vuole entrare è un cartello con scritto "Vietato l'ingresso".
Mi alzo, vado in bagno, mi guardo allo specchio. Cristo. Imponi ogni giorno questa faccia alle persone cui capiti davanti. Senso di colpa. Esco di casa, scendo in strada, mi incammino. McDonald. Ordino due panini. Non mi fissare, commessa carina. La commessa ha un viso grazioso, la bellezza tratta da una canzone di un gruppo sconosciuto. Peccato che lavorando in una multinazionale tu debba perdere tutto il tuo credito alternativo, come se quel gruppo avesse firmato per una Major. Lo so, sono i miei capelli, sono spettinati. E nemmeno di quello spettinato-ma-bello che sta bene alle persone belle-ma-spettinate; sono solo spettinati. Mi metto a posto domani. Gente seduta ai tavoli, un ragazzo solo, una ragazza sola. Oddio, dovresti mettervi a mangiare insieme, è così evidente. Gli unici due a mangiare da soli, accidenti, se non volete farlo per sentimento almeno fatelo per ossessione: completate il quadro, così me ne posso andare. Di nuovo in strada, c'è più vento di quando sono entrato, lo stato dei capelli peggiora, ormai perso ogni pudore mangio dalla busta di cartone come un barbone. Fermo al semaforo aspettando il verde, osservo loro due sul motorino: lei cerca di mettere il piede sulla pedana sotto il manubrio, lui si scherma e la respinge delicatamente, ma senza tregua, lei ci riprova. Vanno avanti per un paio di minuti. Non posso vederli in faccia, a causa dei caschi, ma mi immagino stiano sorridendo o qualcosa del genere. Rituali strani per animali strani. Mi viene in mente lei, noi due che parliamo. Cerchiamo di spiegarci come si legge il mondo. Tu alla ricerca di tanti piccoli indizi, da collegare, annotare, annodare. Io disperato per la mancanza di un grande unico schema che rifletta ogni cosa. Non ci sono termini buoni per parlare di cose come queste: tiriamo fuori parole come "sincronia", "armonia", "simmetria", "amore che tiene legato ciò che è lontano, senza una logica". Ma non stiamo parlando di noi. Lei, insieme a me, a volte rimane un po' sola. Come se per pensare ad altre storie, finisca per pensare a me. Un certo strabismo nei pensieri.
Succede che il silenzio finisca per prendere il mio posto.
Succede che il silenzio diventi me.
Le facce, e il freddo sulla mia, mi distraggono. Mi sembra di pescare idee come da una di quelle macchine in cui infili la monetina e guidi una mano meccanica perchè raccolga il tuo premio. Anche se ti riesce di acchiappare qualcosa, ricade nel mucchio prima che tu possa farla tua. Tanto più si asseconda la mania di compartimentare la realtà, tanto più ogni rapporto o legame apparirà come una contaminazione, qualcosa di irrazionale nel senso etimologico del termine, ovvero: fuori dalla divisione. Passo di fronte ad una libreria. Mi vengono in mente titoli di libri surreali: La possibilità di un'isolitudine, Alla ricerca del tempo mai avuto. Foto in negativo a punte di matita. Chissà se qualcuno ha già pensato di farle, la grafite apparirebbe bianca, straniante. Non ho visto la foto, ma già mi piace l'effetto che fa. Ritorno a casa. Nessun post-it sulla porta della mia camera, nessun messaggio lasciato sulla lavagnetta sopra il frigorifero. La cosa migliore che può capitare ad una porta in cui nessuno vuole entrare è un cartello con scritto "Vietato l'ingresso".
08 dicembre 2007
Mozzichi e nuvole
Il Meccanismo Bizantino giace sotto il mio letto mentre dormo, e ci sono delle notti in cui cresce e cresce e mi solleva fino al soffitto. Il Meccanismo Bizantino non fa paura, ma fa impallidire ogni divinità mai adorata dall'uomo. Il Meccanismo Bizantino non ama e non odia, il Meccanismo Bizantino è paradosso irrisolvibile e completo. In principio, sarebbe possibile conoscere il futuro, il passato e il tempo in sè, guardando attraverso le lenti del Meccanismo Bizantino. Il Meccanismo Bizantino costruisce il mondo quando apro gli occhi e lo distrugge quando li richiudo. Ci si avvicina al Meccanismo Bizantino ascoltando la parola di Zenon il profeta. Il Meccanismo Bizantino gradisce che io rimanga fermo, quando viola il mondo con le sue propaggini. Il Meccanismo Bizantino disallinea le rotazioni dei cieli e delle terre, secerne il collante che regge coesa la materia, che poi innerva. Chi osa tentare di abbeverarsi a questa fonte, diventa superfluo al Meccanismo Bizantino. Il Meccanismo Bizantino nega l'oro, l'argento e tutto ciò che c'è di più prezioso. Nulla proviene dal Meccanismo Bizantino, nulla tornerà al Meccanismo Bizantino. Il dilemma dell'essere viene neutralizzato dal Meccanismo Bizantino, per definizione. Non più sento alieno il mio animo abietto, quando sono sobillato dal Meccanismo Bizantino.
Durante la notte numero uno, ho inventato il linguaggio nuovo. Dimentiche sillabe e parole, il linguaggio nuovo era composto di simbolemi atomici, dal significato unico ed indivisibile. Forte della nuova disambiguità, il linguaggio nuovo non aveva bisogno di alcuna grammatica: ogni sequenza di simbolemi avrebbe prodotto una nuova idea, un discorso perfettamente sensato, un concetto inconfutabile. L'unica convenzione era la disposizione sul piano di scrittura: tre righe parallele e concentriche, a spirale. Come un'aria a tre voci, una tripla armonia semantica. La sorpresa risiedeva nella scoperta di poter leggere radialmente i simbolemi, dal centro verso l'esterno, generando ancora nuovi significati. Persino la rimozione di una delle tre spirali si produceva in un'opera creativa.
Durante la notte numero tre, ho dato una sbirciata in un supermercato del futuro. Ho comprato un barattolo di latta, pieno di una specie di mollica inzuppata nell'acqua e avvolta in quelle che sembravano foglie d'insalata, o alghe. La mia lattina era però contaminata. All'interno, tra gli avanzi di mollica, si contorceva una lumaca gigante, rossa e ruvida come una lingua, senza guscio o antenne o altri elementi di riconoscimento.
Della notte numero due, narrerò in una prossima occasione.
Durante la notte numero uno, ho inventato il linguaggio nuovo. Dimentiche sillabe e parole, il linguaggio nuovo era composto di simbolemi atomici, dal significato unico ed indivisibile. Forte della nuova disambiguità, il linguaggio nuovo non aveva bisogno di alcuna grammatica: ogni sequenza di simbolemi avrebbe prodotto una nuova idea, un discorso perfettamente sensato, un concetto inconfutabile. L'unica convenzione era la disposizione sul piano di scrittura: tre righe parallele e concentriche, a spirale. Come un'aria a tre voci, una tripla armonia semantica. La sorpresa risiedeva nella scoperta di poter leggere radialmente i simbolemi, dal centro verso l'esterno, generando ancora nuovi significati. Persino la rimozione di una delle tre spirali si produceva in un'opera creativa.
Durante la notte numero tre, ho dato una sbirciata in un supermercato del futuro. Ho comprato un barattolo di latta, pieno di una specie di mollica inzuppata nell'acqua e avvolta in quelle che sembravano foglie d'insalata, o alghe. La mia lattina era però contaminata. All'interno, tra gli avanzi di mollica, si contorceva una lumaca gigante, rossa e ruvida come una lingua, senza guscio o antenne o altri elementi di riconoscimento.
Della notte numero due, narrerò in una prossima occasione.
02 dicembre 2007
Di infradito ed altri scandali
Sono sveglio. No, stai ancora sognando. E' domenica mattina. No, è lunedì. Posso dormire ancora un po'. No, sei già in ritardo. Faccio colazione e mi rimetto a letto. Nessuno ti ha preparato la colazione. Torno subito. Vattene via.
L'ho assaporato con precisione, lo strappo alla schiena, durante quel faccia a faccia: lo stato di abbandono degli ammortizzatori anteriori e l'erezione di una radice d'albero sotto l'asfalto. Prima, avevo trovato il mio posto in un piccolo disagio. Aspettarti con la schiena contro la macchina, osservare i grigi dissolversi, le ombre nettarsi, mettere gli occhi negli occhi di chi imboccava e poi svoltava. Per ogni passaggio, una scossa. Il 10% delle foglie rimaste appese si riversava in aria, nell'indifferenza e ignoranza dell'elemento scatenante. Ad ogni ondata, io mi incatenavo ad una singola foglia. S'ostinava a voltarsi su se stessa, faccia in su, faccia in giu, faccia in su. Ero sicuro che credesse di star cambiando idea. Invece c'era già una aspettativa di destino sotto forma di pavimentazione stradale. Come per me.
Ho spiegato uno straccio verde sul tavolo. Ho preparato due mucchietti, uno di caffè solubile e uno di thé solubile. Ho sparso i grani, ho chiuso gli occhi e li ho raccolti con la lingua. Ho ascoltato la mia schiena socchiudersi all'inverosimile, ho dato attenzione allo sfrigolare delle due bevande nell'atto di reidratarsi. Ho puntellato amarezze, dolcezze e timidezze. Ho sentito l'alchimia scorrermi sotto la pelle, e mi stavo solo facendo un thé. Novecento secondi, le bollicine che si uniscono e si separano e si aggregano di nuovo e gravitano. Ancora più incrinato, ci ho letto la formazione di una galassia. Ho contratto gli occhi e spianato le palpebre, ho sentito belare poi gracidare. Ho un contratto per una malattia. Ho scritto decine di lettere, le ho riempite delle cose peggiori che potessero venirmi in mente per voi tutti miei sconosciuti destinatari. Le avrei avvolte in buste gialle e imbucate e quando mi sarebbero tornate indietro, mi sarebbe stato sconosciuto anche il mittente. Ho chiuso gli occhi e ho preso sonno, ma prima ho capito Chopin. Il sonno mi è caduto dalle mani ed è rotolato sotto il letto e l'ho perso. Ho camminato e incrociato momenti su momenti, sembra che facciano la mia stessa strada, sempre, al contrario. Ho preparato un nido per quando un giorno ritroveremo quel sonno e ne rideremo. Ho pensato adesso la interrompo e le spiego come è bella. Maledetto nido, maledetto intreccio, maledetto sonno, maledetta trivialità, maledetti luoghi, maledetto maledetto, maledette ritrattazioni, maledetto leggero, maledetto spirito. Ho invocato la sospensione della respirazione. Ho scaramanticamente evitato di mostrare i denti. Ho decretato la via più bella della città, ho soffocato la pioggia. Ho riso leggendo abbasso tutti. Ho capito che per lasciare un messaggio le lettere vanno grattate via con le unghie. Ho capito che per portarsi via un messaggio. Non ho capito cosa ci faccio nella tua bocca, se non mordi o non mi sputi. Ho apprezzato la preferenza per i fiori più semplici. Ho spiegato tutto col mio silenzio di prima. Ho aspettato che il freddo ti coprisse le spalle e le gambe. Ho piegato tutto il mio silenzio prima e l'ho chiuso nel niente.
L'ho assaporato con precisione, lo strappo alla schiena, durante quel faccia a faccia: lo stato di abbandono degli ammortizzatori anteriori e l'erezione di una radice d'albero sotto l'asfalto. Prima, avevo trovato il mio posto in un piccolo disagio. Aspettarti con la schiena contro la macchina, osservare i grigi dissolversi, le ombre nettarsi, mettere gli occhi negli occhi di chi imboccava e poi svoltava. Per ogni passaggio, una scossa. Il 10% delle foglie rimaste appese si riversava in aria, nell'indifferenza e ignoranza dell'elemento scatenante. Ad ogni ondata, io mi incatenavo ad una singola foglia. S'ostinava a voltarsi su se stessa, faccia in su, faccia in giu, faccia in su. Ero sicuro che credesse di star cambiando idea. Invece c'era già una aspettativa di destino sotto forma di pavimentazione stradale. Come per me.
Ho spiegato uno straccio verde sul tavolo. Ho preparato due mucchietti, uno di caffè solubile e uno di thé solubile. Ho sparso i grani, ho chiuso gli occhi e li ho raccolti con la lingua. Ho ascoltato la mia schiena socchiudersi all'inverosimile, ho dato attenzione allo sfrigolare delle due bevande nell'atto di reidratarsi. Ho puntellato amarezze, dolcezze e timidezze. Ho sentito l'alchimia scorrermi sotto la pelle, e mi stavo solo facendo un thé. Novecento secondi, le bollicine che si uniscono e si separano e si aggregano di nuovo e gravitano. Ancora più incrinato, ci ho letto la formazione di una galassia. Ho contratto gli occhi e spianato le palpebre, ho sentito belare poi gracidare. Ho un contratto per una malattia. Ho scritto decine di lettere, le ho riempite delle cose peggiori che potessero venirmi in mente per voi tutti miei sconosciuti destinatari. Le avrei avvolte in buste gialle e imbucate e quando mi sarebbero tornate indietro, mi sarebbe stato sconosciuto anche il mittente. Ho chiuso gli occhi e ho preso sonno, ma prima ho capito Chopin. Il sonno mi è caduto dalle mani ed è rotolato sotto il letto e l'ho perso. Ho camminato e incrociato momenti su momenti, sembra che facciano la mia stessa strada, sempre, al contrario. Ho preparato un nido per quando un giorno ritroveremo quel sonno e ne rideremo. Ho pensato adesso la interrompo e le spiego come è bella. Maledetto nido, maledetto intreccio, maledetto sonno, maledetta trivialità, maledetti luoghi, maledetto maledetto, maledette ritrattazioni, maledetto leggero, maledetto spirito. Ho invocato la sospensione della respirazione. Ho scaramanticamente evitato di mostrare i denti. Ho decretato la via più bella della città, ho soffocato la pioggia. Ho riso leggendo abbasso tutti. Ho capito che per lasciare un messaggio le lettere vanno grattate via con le unghie. Ho capito che per portarsi via un messaggio. Non ho capito cosa ci faccio nella tua bocca, se non mordi o non mi sputi. Ho apprezzato la preferenza per i fiori più semplici. Ho spiegato tutto col mio silenzio di prima. Ho aspettato che il freddo ti coprisse le spalle e le gambe. Ho piegato tutto il mio silenzio prima e l'ho chiuso nel niente.
24 novembre 2007
Benvenuto a chi viene per smontarmi
C'è stato un volta un piccolo spicchio di mandarino che si chiamava Pennellope. Un giorno d'inverno, Pennellope andò a fare una passeggiata con i suoi genitori. Aveva appena nevicato e papà Enginobaldo pensò che sarebbe stato bello che la piccola Pennellope vedesse per la prima volta il mondo innevato. Allora mamma Fifirella mise a Pennellope un lungo cappello verde, in cima al quale spuntava un vistoso pon-pon, fatto di tutti i colori dell'arcobaleno. Uscirono dal loro cesto della frutta e si avviarono per le strade della cittadella. Pennellope era meravigliata da tutto: il fiato che le usciva in nuvolette dalla bocca, gli alberi spogli di foglie e con i rami carichi di neve, il sole bianchiccio che le riscaldava la punta del naso. D'improvviso vide un grande e strano omone in mezzo alla neve. Si nascose dietro le gambe di papà Enginobaldo e con la voce tremante chiese:
"Aiuto! Cos'è quello, papà?"
Lui rispose:
"Non devi avere paura, Pennellope, è un pupazzo di neve!"
"Ah... e a cosa serve?"
"A festeggiare l'inverno!"
"Ma cos'ha al posto del naso?"
"Non vedi è una carota... è tua cugina Putrella"
"E' vero! Ciao Putrella!!!" urlò la piccola Pennellope rivolgendosi alla cugina. Putrella la guardò un attimo e le sorrise, poi riprese la sua posa seria da Carota Naso Di Pupazzo Di Neve. Pennellope dichiarò:
"Da grande voglio fare anche io una parte nel pupazzo di neve!"
Ma proprio mentre pronunciava queste parole, due allodole gigantesche, come spuntate dal nulla, si abbatterono su di lei. Mamma Fifirella cominciò ad urlare dal terrore, mentre papà Enginobaldo tentava inutilmente di togliere Pennellope dalle grinfie dei due terribili animali. La prima allodola riuscì solamente ad artigliare il bel cappello di Pennellope, riducendolo in brandelli. La seconda allodola ebbe, ahinoi, più fortuna e infilzò la succosa polpa di Pennellope, si levò in volo e la portò via per sempre dai suoi genitori.
Nessuno sa dove l'allodola portò Pennellope, nè quale destino le fu riservato.
Ancora oggi, tuttavia, le mamme raccontano ai figli la storia di Pennellope, per metterli in guardia e insegnare loro a non diventare mai, mai, spicchietti per le allodole.
"Aiuto! Cos'è quello, papà?"
Lui rispose:
"Non devi avere paura, Pennellope, è un pupazzo di neve!"
"Ah... e a cosa serve?"
"A festeggiare l'inverno!"
"Ma cos'ha al posto del naso?"
"Non vedi è una carota... è tua cugina Putrella"
"E' vero! Ciao Putrella!!!" urlò la piccola Pennellope rivolgendosi alla cugina. Putrella la guardò un attimo e le sorrise, poi riprese la sua posa seria da Carota Naso Di Pupazzo Di Neve. Pennellope dichiarò:
"Da grande voglio fare anche io una parte nel pupazzo di neve!"
Ma proprio mentre pronunciava queste parole, due allodole gigantesche, come spuntate dal nulla, si abbatterono su di lei. Mamma Fifirella cominciò ad urlare dal terrore, mentre papà Enginobaldo tentava inutilmente di togliere Pennellope dalle grinfie dei due terribili animali. La prima allodola riuscì solamente ad artigliare il bel cappello di Pennellope, riducendolo in brandelli. La seconda allodola ebbe, ahinoi, più fortuna e infilzò la succosa polpa di Pennellope, si levò in volo e la portò via per sempre dai suoi genitori.
Nessuno sa dove l'allodola portò Pennellope, nè quale destino le fu riservato.
Ancora oggi, tuttavia, le mamme raccontano ai figli la storia di Pennellope, per metterli in guardia e insegnare loro a non diventare mai, mai, spicchietti per le allodole.
11 novembre 2007
Ok. Ok, ok, ok, ok, ok. (Ok). Ok.
- Ho assaggiato la libertà, e sa di pollo.
- "E poi c'è la televisione. Non posso interferire con la televisione."
- Credo che la vita sia come Ikea, piena di false credenze.
- Ho sempre avuto l'impressione che il corollario fosse quella cosa che avvicina la matematica ad un fiore.
- Vivo in una stanza perchè non posso permettermi una canzone tutta mia.
- Nella pronuncia di "troppo", la conta delle "p" è il metro dell'esagerazione.
- Che nutella sarebbe senza il mondo?
- Anche io studio filosofia, ma non all'università. Per strada, contromano.
- Tutto quello che non è strettamente compromettente, lo cancelliamo.
- La cosa che più sorprende, camminando per venezia, sono gli alberi. Che ci siano alberi.
- M'illumino di mensole.
- L'ennesima banalità: Tutti, alla fine, se ne vanno. Resta da decidere se essere uno che abbandona o un abbandonato.
- Posso essere così vago da farti credere che questa frase sia rivolta a te.
(squilli di una suoneria anonima)
"Pronto"
"Ciao, sono A."
"Ciao"
"Come va?"
"Boh, bene."
"Che mi racconti? Che novità?"
"No, in verità non bene. Sono morto."
"Come?"
"Sì, sono morto. Sai, di solito si risponde -bene- come in un riflesso, anche se non va affatto bene. Tu mi chiedi come va, io dico bene, io ti chiedo come va, tu mi..."
"Vabbè, ho capito"
"...dici bene. E' la formula."
"Se sei morto perchè hai risposto al telefono?"
"Perchè mi hai chiamato tu, che domande"
"Ma i morti non rispondono al telefono!"
"Sei sicuro? A quanti morti hai telefonato ultimamente?"
"Nessuno"
"A uno veramente, me. E infatti ti ho risposto. Come fai a dire che i morti non rispondono se non li chiami mai?"
"Ma è una follia! Perchè dovrei chiamare un morto se so che non può rispondere?"
"A. senti... è la tua logica ad essere sbagliata: se qualcuno non risponde mai al telefono, nè a te nè a nessun altro, allora lo puoi considerare morto. Ma non è detto che un morto non risponda. La morte è una condizione sufficiente, ma non necessaria, al non rispondere al telefono. Pensaci, vedrai che ho ragione."
"Ma... ma... che scherzo di cattivo gusto. Non ti chiamerò mai più, puoi starne sicuro. E non provare a richiamarmi, che non ti rispondo."
"Oh, mi dispiace! Eri giovane, avevi ancora tutta la vita davanti. Condoglianze A."
"Ma vaff..."
(click)
Sopravvivevamo all'errore di quel "noi".
Io ti raccontavo che stavo guidando, e invece impugnavo un grande anello e pestavo i piedi su piccole piattaforme.
Tu mi imponevi pic-nic lungo il confine. Confine tra regione e regione, confine tra un giorno e il precedente, confine tra "sei un angelo" e "c'è un pellicano che crede di essere il mio zaino".
Ci scambiavamo il colore degli occhi, i secondi sull'orologio e le foto fatte agli sconosciuti; poi ancora le foglie con i colori più improvvisati, i numeri di telefono di vecchi amori e il singhiozzo.
Io ti sfidavo: "Sii la stella che sei, fino in fondo, e vedi di cadere da qualche parte".
Tu mi riempivi di sentimenti segnaposto.
Ci riscaldava dentro accumulare oggetti per un bisogno che non avevamo ancora. Il primo fu la teiera da thé, vinta con i punti della benzina, per quella nostra casa che non c'era ancora.
Io cercavo di ipnotizzarti e intrattenevo il tuo respiro.
Tu volevi imparare a piovere, diluviare.
Discutevamo del ruolo della luna nella didattica dei sentimenti.
Io detestavo le tue magliette ingenuamente ironiche.
Tu rifiutavi di passare tra due specchi appesi l'uno di fronte all'altro. "E' pericoloso. Scomparirò." annunciavi.
Ci allacciavamo i bottoni a vicenda, ed era l'unico modo di farci promesse.
I was just a clown who was feeling down.
Tu eri "fermiamoci qui" e "perchè fai così?".
Giocavamo a fare finta di essere lì contro la nostra volontà.
Ha smesso di essere un gioco, poi, quando.
30 ottobre 2007
Delirium Aquarium
Manì le fa una domanda. Non vuole sapere la risposta, ma vuole sentirgliela dire. Hortencia inizia un racconto che dura due isolati, ma lungo come tutta la periferia intorno al nocciolo grinzoso della domanda. Ora Manì non parla, impegnato com'è a chiedersi come manterrà questa promessa infinita. Lei scappa avanti, lui non si ferma a raccogliere gli indizi, si stringe addosso l'impermeabile e si augura di non raggiungerla mai. E' il loro gioco. Si intrufolano in un cinema, o la tana di un enorme insetto. Le pareti devono essere coperte di bassorilievi, altrimenti sono i resti fossili di altre storie come quella di Manì e Hortencia. Si dimenticano l'una dell'altro, mentre i loro volti fanno l'eclisse di fiori che volano via e dello sguardo triste dell'uomo silenzioso che parla attraverso il tempo. Poi una rivoluzione: le risate sono le grida di protesta, le battute scontate sono la mano del boia. La folla è una immensa testa con il mento coperto di sabbia, gli occhi rivolti ad una trappola troppo scontata per non caderne vittima. Senza lasciarsi divorare, i due si fanno cuccioli e scivolano fuori. Hortencia si addormenta, Manì la protegge. Manì si dimentica di tenere fermi gli occhi, Hortencia si sveglia.
"Manì, dove siamo?"
"Sott'acqua"
"Mi fa paura!"
"Dimentica. Vedi quelle luci?"
"Si"
"Sono pesci predatori. Le due luci che portano davanti al muso servono per attirare le prede e per divorarle"
"Avevi detto che non c'era d'aver paura!"
"Siamo già stati mangiati."
"Vuoi dire che..."
"Sì, adesso siamo anche noi pesci predatori"
"Oddio cosa dobbiamo fare? Non so niente di come ci si comporta da pesci"
"Abbiamo un posto in fila, secondo un preciso ordine di grandezza. Avrai visto le figure."
"Riportami a casa"
"Sì. Nasconditi."
Oggi Manì non tocchera Hortencia, perchè pensa che il suo sentimento la contaminerebbe. Le si infilerebbe sotto le unghie e poi dentro le mani, nei lacci del vestito e nel gancio della sua catenina. Se Hortencia gli aprisse la pancia e tirasse fuori i piccoli rotoli di carta quadrettata su cui lui ha scarabocchiato i suoi desideri prima di ingoiarli, le parrebbero così esagerati da finire per credere che lui stia fingendo. Manì ha bevuto latte per tutta la notte, sperando nel bianco. Invece blu qualunque, ovunque. Il desiderio di Manì per Hortencia gli dà il permesso del silenzio.
Allora tutto inizia da un piccolo brivido.
"Manì, dove siamo?"
"Sott'acqua"
"Mi fa paura!"
"Dimentica. Vedi quelle luci?"
"Si"
"Sono pesci predatori. Le due luci che portano davanti al muso servono per attirare le prede e per divorarle"
"Avevi detto che non c'era d'aver paura!"
"Siamo già stati mangiati."
"Vuoi dire che..."
"Sì, adesso siamo anche noi pesci predatori"
"Oddio cosa dobbiamo fare? Non so niente di come ci si comporta da pesci"
"Abbiamo un posto in fila, secondo un preciso ordine di grandezza. Avrai visto le figure."
"Riportami a casa"
"Sì. Nasconditi."
Oggi Manì non tocchera Hortencia, perchè pensa che il suo sentimento la contaminerebbe. Le si infilerebbe sotto le unghie e poi dentro le mani, nei lacci del vestito e nel gancio della sua catenina. Se Hortencia gli aprisse la pancia e tirasse fuori i piccoli rotoli di carta quadrettata su cui lui ha scarabocchiato i suoi desideri prima di ingoiarli, le parrebbero così esagerati da finire per credere che lui stia fingendo. Manì ha bevuto latte per tutta la notte, sperando nel bianco. Invece blu qualunque, ovunque. Il desiderio di Manì per Hortencia gli dà il permesso del silenzio.
Allora tutto inizia da un piccolo brivido.
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